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Vasari: le Vite e i 3 colori dell’Unità linguistica d’Italia

Dal Corriere di Arezzo di oggi lunedì traiamo grazie alla disponibilità dell’autore Andrea Franceschetti, linguista e dialettologo, questo articolo (pubblicato a pag. 4) di approfondimento sulla lingua delle Vite del Vasari, un pezzo interessante che intreccia 500esimo anniversario della nascita di Vasari e 150esimo dell’Unità d’Italia.

 

Col suo affacciarsi alla vita, mezzo millennio esatto fa, Giorgio Vasari ha catapultato il mirabile affresco naturale e culturale delle terre di Arezzo ai vertici di una duplice leadership, artistica e linguistica.

Vasari segna (e ci limitiamo a considerarne solo le Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori) sia la definizione di un canone storico-figurativo, che il recepimento e la fissazione di un proto-modello linguistico unitario, còlto all’alba bembiana.

 

Per questa ed altre motivazioni, nel nostro mordere il 2011, ha un sapore non esclusivamente numerico il coincidere del suo cinquecentenario con le 150 primavere dell’Unità d’Italia: Vasari, nel 1550 e nel 1568, con le due edizioni delle Vite, pennella, insieme ad un originale “dire” dell’arte e degli artisti, anche le trame del “come dirlo” in Italiano.

L’epigrafe, il motto principale dell’opera, suona ancora, com’è norma, in Latino, e vale la pena risentirlo suonare: “hac sospite nunquam / hos periisse viros, victos / aut morte fatebor”, in soldoni “messa in salvo questa (l’Arte, che soffia la triplice tromba e reca nella destra la torcia nella miniatura sovrastante? O l’opera stessa del Vasari?) mai dichiarerò che questi uomini sono caduti, o sconfitti dalla morte” (il tutto tratto dall’VIII dell’Eneide, con Evandro che si rivolge ad Enea: “Maxime Teucrorum ductor, quo sospite numquam / res equidem Troiae victas, aut regna fatebor”, “Grandissima guida dei Teucri, salvo il quale mai / dichiarerò veramente vinti le potenze e i regni di Troia”).

In virtù dell’onore dell’arte e delle opere, quindi, non si muore.

E Vasari è ancora vivo della sua, della nostra lingua, anche cinquecento anni dopo.

Federico Chabod, che si fece carico, nel 1936, della voce Rinascimento per l’Enciclopedia Italiana, sostenne che il termine fosse nato proprio con l’opera vasariana (dal genio di Giotto a Vasari, sotto l’ala di Cosimo de’ Medici, con Leonardo, Michelangelo e Raffaelo indiscussi vertici del processo).

Di Rinascimento Vasari parla, ad esempio, nel contesto della Vita di Iacopo di Casentino da Pratovecchio, discepolo di Giotto: “al tempo suo ebbe principio, l’anno 1350, la Compagnia e Fraternita de’ pittori; perché i maestri che allora vivevano, così della vecchia maniera greca come della nuova di Cimabue, ritrovandosi in gran numero e considerando che l’arti del disegno avevano in Toscana, anzi, in Fiorenza propria avuto il loro rinascimento, crearono la detta Compagnia sotto il nome e protezzione di S. Luca Evangelista, sì per rendere nell’oratorio di quella lode e grazie a Dio, e sì anco per trovarsi alcuna volta insieme e sovenire così nelle cose dell’anima come del corpo a chi, secondo i tempi, n’avesse di bisogno”. Nel Proemio alla parte seconda s’affaccia l’equivalente rinascita: “Io nientedimanco per avere nelle vite de’ particolari ragionato a bastanza de’ modi de l’arte, de le maniere e de le cagioni del bene e meglio et ottimo operare di quelli, ragionerò di questa cosa generalmente, e più presto de la qualità de’ tempi che de le persone, distinte e divise da me, per non ricercarla troppo minutamente, in tre parti, o vogliamole chiamare età, da la rinascita di queste arti sino al secolo che noi viviamo”.

Dal 1550 al 1568, dalla prima edizione Torrentiniana alla seconda presso Giunti, si passa dalla Letteratura alla Storia, “dalla Teologia all’Arte” (secondo Lionello Venturi); viene attuata anche una revisione linguistica (gli amici filologi Borghini e Giambullari lo indirizzano verso la volontà di adeguarsi all’indigeno idioma della Firenze di Cosimo).

L’intelligenza e lo studio del “pittore et architetto aretino” risultano accompagnati da capriccio e bizzarria, il brio linguistico è un ricordo dell’amico di adolescenza Pietro Aretino, gli assi principali della stratificazione linguistica sono il suo essere teorico dell’arte, artista, critico, artigiano, storiografo e cronista, che non disdegna la cultura popolare a la drammatizzazione. Ma come la difficoltà del dipinto dovrà essere accompagnata dalla capacità di nascondere le fatiche con la facilità del tratto (sembra l’atteggiamento estetico consigliato dal Castiglione nel Cortegiano, quando accenna alla “sprezzatura”, cioè alla naturalezza nel nascondere l’artificio del buon comportamento a corte), come Il giudizio universale di Michelangelo è summa di “tutte le difficultà dell’arte” ma l’autore è immenso perché “ha aperto la via della facilità di questa arte nel principale suo intento, che è il corpo umano”, così facilmente umana dovrà essere la scrittura, il racconto delle vite, delle opere e delle tecniche degli artisti.

 

La brevità dell’intervento impone di limitarci a poche osservazioni tecniche, concentrate sul versante di quanto è ancora linguisticamente instabile, poiché frutto, in larga parte, di una lingua in fieri e di un’origine aretina mai distante dalla penna.

 

Le metatesi (inversioni di suoni all’interno della parola, anche oggi ricorrenti nel dialetto aretino) sono, da questo punto di vista, emblematiche: Vasari scrive ‘dentro’ ma anche ‘drento’ (“dove son dentro molti fanciulli con pampani et uve” ma anche “e drento nel convento fece a’ frati, pur di commessione di Cosimo, molti acconcimi utili”); scrive ‘dipingere’ e ‘dipignere’: “Del dipingere in muro: come si fa e perché si chiama lavorare in fresco” accanto al celeberrimo “Avvenne che dipignendo Lionardo da Vinci pittore rarissimo nella sala grande del Consiglio, Piero Soderini, per la gran virtù che egli vidde in Michelagnolo, gli fece allogagione d’una parte di quella sala: onde fu cagione che egli facesse a concorrenza di Lionardo l’altra facciata, nella quale egli prese per subietto la guerra di Pisa”; alterna ‘aggiungere’ ad ‘aggiugnere’: “E lodando sommamente colui che oltre al disegno aggiunge sempre all’arte qualche cosa” e “aggiugner sempre qualcosa di bontà”. Curiosa anche la continua alternanza coi nomi di persona: c’è ‘Michelagnolo’, ‘Michelangelo’ e ‘Michelagnelo’ e anche il cognome compare in variante, con ‘Buonarroti’ e ‘Bonarroti’ o ‘Buonarruoti’ (l’ipercorrettismo è nel titolo Vita di Michelagnolo Buonarruoti fiorentino pittore, scultore et architetto). Mai, invece, è attestato ‘Michelangiolo’, come spesso invece compare anche nella odonomastica aretina; Vasari però usa ‘Angiolo’ e ‘Agnolo’ per ‘Angelo’ (“il detto Angiolo che gira è alto dieci piedi”; “Fece ancor ella due Agnoli di grandissimo rilievo e di bella proporzione”). Non si salvano nemmeno il ‘Grillandaio/Ghirlandaio’ e, naturalmente, le ‘Grillande/Ghirlande’ (“E nella parte di dietro sono sei Angioletti che tengono una ghirlanda di foglie d’olmo” con “e sopra i balaustri una grillanda di candelieri”; “il quale anche egli giovane si era posto appresso a Domenico del Grillandaio per imparare l’arte della pittura” insieme a “il più bello di tutti è quello di Giotto nella nave del portico di S. Piero di Roma; e ne’ moderni quello di Domenico del Ghirlandaio sopra la porta di fuori di Santa Maria del Fiore che va alla Nunziata”.

 

L’aretinità vasariana emerge anche dal frequentissimo ‘Stiacciare’ contrapposto al più raro ‘Schiacciare’ (come la ‘cloaca’ (fogna) nell’oriente toscano dà ‘chioca’ e poi ‘tioca’; come ‘cucchiaio’ è attestato popolarmente ‘cuttiaio’ e ‘schiavo’‘stiavo’: Vasari scrive “sassi di fiumi tondi e stiacciati” e “i detti colori vogliono esser fatti in polvere e stiacciati” ma anche “con un tondo schiacciato, liscio e risplendente a guisa di specchio” e “si mette in su uno marmo piano, e sopra con un altro pezzo di marmo si schiaccia”.

C’è ‘nudo’, ‘ignudo’, ma anche ‘gnudo’ con aferesi (caduta della vocale iniziale); è sempre ‘buono’ e ‘nuovo’, mai ‘bono’ e ‘novo’, ma talvolta c’è ‘bonissimo’ con ‘buonissimo’, mentre è attestato solo ‘novissimo’; c’è ‘uscio’ e c’è ‘porta’; c’è un solo ‘babbo’ (tra l’altro in un discorso diretto) per il resto solo ‘padre’; c’è ‘poggio’ e mai ‘collina’ e pochi ‘colli’ e mai ‘colle’, se non in Raffaele dal Colle di Borgo San Sepolcro.

C’è ‘pacienza’, ‘pacienzia’, ‘pazienzia’, tanti tipi di ‘pazienza’, quindi, tanti quanti quelli a cui hanno dovuto far ricorso i lettori di questo approfondimento, che contaminava il cinquecentesimo vasariano con le celebrazioni dell’Unità (anche linguistica) d’Italia.

Vasari è una tappa importante del nostro Italiano, proprio anche in virtù della sua aretinità, quell’aretinità che fa dire a Michelangelo, parlando delle proprie origini, rivolgendosi all’amico: “Giorgio, si’ ho nulla di buono nell’ingegno, egli è venuto dal nascere nella sottilità dell’aria del vostro paese d’Arezzo, così come anche tirai dal latte della mia balia gli scarpegli e ‘l mazzuolo con che io fo le figure”. La balia, moglie di uno scalpellino, lo allattò a Settignano, ma fu la terra di Arezzo a chiamarlo Michelangelo… o Michelagnolo, oppure Michelagnelo?

Michele Lupetti

Colui che nel lontano 2006 ideò tutto questo. Fondatore e proprietario di ValdichianaOggi, dopo gli inizi col blog "Il Pollo della Valdichiana". Oltre a dispensare opinioni sulle cose locali è Beatlesiano da sempre (corrente-Paul Mc Cartney), coltiva strane passioni cinematografiche e musicali mescolando Hitchcock con La Corazzata Potemkin, Nadav Guedj con i Kraftwerk. I suoi veri eroi, però, sono Franco Gasparri, Tomas Milian, Maurizio Merli, Umberto Lenzi... volti di un'epoca in cui sarebbe stato decisamente più di moda: gli anni '70

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