{rokbox title=| :: |}images/liu.jpg{/rokbox}Voglio dedicare anch’io una riflessione a Liu, il dissidente cinese a cui è stato dato il Premio Nobel. Ho scritto queste righe durante il mio ultimo viaggio in Cina.
No, non ho mai veramente amato il comunismo cinese. Anche negli anni in cui ero immerso nella passione sessantottina, quando a sinistra in parecchi erano infatuati della Cina e dalla Cina prendevano tutto a scatola chiusa, anche allora non riuscivo a sentirmi vicino a questo grande paese. Certo, la Rivoluzione Culturale mi piaceva come idea, anzi, mi piaceva anche solo per il fatto di chiamarsi così.
I nomi cinesi, ancora loro. Come ti fregavano persino certi slogan, che rimbalzavano dalla Cina e sembravano fatti apposta per esprimere quanto mi portavo dentro. «Bombardate il quartier generale», oppure «Cento fiori fioriscano, cento scuole gareggino»: melodia per le orecchie di ragazzi come me. Parole che appartenevano ai nostri sogni di una società, meno opprimente, meno autoritaria, parole che gridavo con forza nei miei primi cortei. Avrei messo le mani sul fuoco, se questo fosse servito a suffragare la verità del pensiero di Mao, quando asseriva che le «contraddizioni in seno al popolo e al Partito», sopravvivono anche alla rivoluzione, perché il processo hegeliano di tesi-antitesi-sintesi non cessa con la presa del potere, perché, più concretamente, il rischio dell’imborghesimento ce lo portiamo sempre con noi. Ed era perlomeno curioso, ovviamente, che parole del genere, così intrise di un bisogno di libertà, arrivassero proprio da un paese dove libertà non c’era. Tutto era menzogna, niente era vero. O peggio, si rovesciava nel suo contrario, per la gioia dei cultori di Hegel, sempre che ce ne fossero davvero: e di questo ho sempre dubitato. Della Cina com’era effettivamente sapevo ancora poco: filtravano solo poche notizie, poche immagini, sull’orrore della Rivoluzione Culturale. Era facile bollare come propaganda anticomunista quanto veniva detto in giro sulle epurazioni e sui plotoni di esecuzione, sulla fame patita dalle masse dei contadini e sulla distruzione dei monasteri. Se anche i migliori compagni potevano alla fine diventare nemici del popolo, allora il Partito – il Partito con la P maiuscola – doveva avere occhi per tutto, guardarsi da tutto, intervenire su tutto. Il Grande Fratello non era quello ipertecnologico e futuribile del romanzo di Orwell, ma funzionava lo stesso.Cosa si celava dietro le esortazioni sistematicamente ripetute a fare autocritica? Cosa dietro i periodi di rieducazione?E cosa voleva dire «imparare a fare la rivoluzione facendola»?Non lo sapevo ancora, oppure cercavo di non saperlo. E tutto quello che posso dire a mio discapito, davvero, è che malgrado quegli slogan la rivoluzione cinese non mi ha mai davvero catturato. Parole urlate, ma con la testa altrove. Gusci di idea, con il cuore che già allora puntava in direzioni diverse.In America Latina, in Africa, piuttosto. Però non in quel continente a se stante che era, che è la Cina.Si sa come Umbria Jazz, in ormai dieci lustri, abbia portato a Perugia e dintorni,…
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