Ci sono annunci che rischiano di passare sottotraccia e rimanere confinati nel campo degli addetti ai lavori. E’ di qualche giorno fa la notizia che in provincia di Arezzo il peso dell’industria è passato dal 31% dei primi anni duemila al 25% di oggi. Le cifre sono crude e dicono che il comparto manifatturiero non ha più una posizione preminente nell’economia aretina. Da sottolineare che questa situazione non accade perché vi è stato un boom dei servizi, del turismo o del commercio ma perché vi è stata una discesa verticale della ricchezza generata dalle imprese industriali.
Se gli altri settori economici avessero compensato quel che si perde con l’industria già si potrebbe in parte respirare, purtroppo non è così e i risultati si vedono: meno aziende, meno posti di lavoro, meno disponibilità finanziarie per le famiglie.
Sarebbe bene che queste cose uscissero dal ristretto ambito degli “esperti” ed entrassero nel novero del sentire comune. Bisogna capire una cosa molto semplice: che se le imprese chiudono, se diminuisce il prodotto, se calano i consumi (anche quelli di base) ci rimettiamo tutti. Compresi quelli che, non si sa se per convenienza, illusione o ideologia, da un po’ di tempo a questa parte considerano l’industria una sorta di “residuato bellico” di cui si può fare tranquillamente a meno. Se ne può fare a meno, secondo questi cultori dell’effimero in economia, perché a compensare le perdite ci penserà il turismo, il commercio e qualche cooperativa sociale. Poveri illusi!
Per un paese perdere il manifatturiero significa fare un salto indietro di 200 anni, ce lo confermano due casi. Uno è la Spagna dove, mancando una industria di base è stata sufficiente la crisi dell’edilizia per mandare a gambe ritte l’intera economia e l’altro è la Germania, paese notoriamente industriale, che proprio grazie a questa forza di base sta uscendo alla grande dalla crisi.
Per questo sarebbe “criminale”, in particolare da parte di chi governa gli Enti Locali, sottovalutare il dato sull’industria aretina. Se questa provincia è andata avanti lo deve al fatto che nei decenni passati tante persone hanno lavorato sodo nel manifatturiero, hanno fatto impresa, hanno costruito veri ne propri distretti produttivi. Perdere tutto questo significa non rialzarsi più, allora ci vuole non solo uno scatto d’orgoglio ma anche un po’ di sano governo delle cose. Che vuol dire? Vuol dire per esempio farla finita con la cultura del non fare, vuol dire promuovere gli investimenti, vuol dire che la pubblica amministrazione si devono mettere al servizio dello sviluppo e non perdersi tra i mille rivoli di una burocrazia malata, vuol dire avere più fantasia nel valorizzare quello che abbiamo. Come? Andando a scavare in profondità sulle cause della crisi, è interessante che oggi le categorie economiche parlino della necessità di costruire una rete d’impresa e una unità d’intenti, peccato che se ne parla da circa vent’anni. In questo eravamo stati, a dire il vero, dei precursori per esempio con Federimpresa, una esperienza di “valore nazionale” di cui è stata decretata, in tempi passati, l’ eutanasia . Diciamo, nel migliore dei casi, che si è perso parecchio tempo. Riprendiamo quel filo senza paura perché qui la situazione è davvero grama, disoccupazione giovanile, gente a spasso senza una prospettiva, imprenditori che battono la testa nel muro, banche che sempre più spesso chiedono di “rientrare” mettendo in crisi aziende consolidate da anni. Un’ultima nota, basta con l’ ambientalismo dei garantiti, di coloro per i quali se le cose non si fanno è meglio, così non si modifica lo status quo.
L’ambientalismo, quello vero non è conservazione e basta, deve prefigurare un mondo nuovo. Un mondo dove la mano dell’uomo non sia vista come la mano del diavolo, un mondo che non sia il ritorno all’acciarino ed alla candela altrimenti è indubbio che i “pirati” dell’economia che se ne fregano di ambiente, territorio, sostenibilità e natura vinceranno sempre. Loro propongono l’esempio Mc Donald per tutta l’economia, un modello accattivante, scintillante e pieno di luci. A queste sirene non basta contrapporre una versione “pane ed acqua” dello sviluppo. Ci vogliono idee, buone idee che mettano assieme tradizione e innovazione nel solco di quel modello toscano che, nonostante tutto, non è mai tramontato.
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