{rokbox title=| :: |}images/urlomunch.jpg{/rokbox}Avrei voluto intervenire sull’argomento già un mese fa (lunedì 6 settembre) quando a dieci giorni esatti dalla scomparsa di Sarah Scazzi Repubblica (non ricordo il nome dell’articolista) faceva il punto della situazione con un servizio in cronaca in cui si stilava il profilo di Sarah. Le considerazioni si basavano sul profilo Facebook, su sbirciatine date ai sei diari, sull’analisi artistico-arredativa della sua camera.
Il servizio chiosava più o meno così: “In camera il poster dei Guns ‘n’ Roses e di Britney Spears, nell’Ipod un strano miscuglio musicale comprendente Fabri Fibra e Tiziano Ferro. Una ragazza piena di misteri”. Sconvolto da questo articolo (e soprattutto dal fatto che comparisse su Repubblica), quelle parole mi sono tornate in mente ieri sera, mentre mi concedevo uno dei rari momenti settimanali di televisione.
Su Rete4, v’era un programma condotto da Salvo Sottile con la partecipazione straordinaria di una Barbara Palombelli in strepitosa forma che, sull’onda dell’entusiasmo mediatico riscosso dal delitto, paventava il reato di calunnia per le cugine di Sarah lanciando anche l’ipotesi che fossero state violentate da Misseri. Sottile intanto presentava collegamenti in diretta con Avetrana, dove un’inviata aveva confezionato una serie di brevi servizi. La chicca migliore? L’intervista (ovviamente a volto coperto) ad un ragazzino punk di cui Sarah si era invaghito. Il ragazzo l’aveva respinta e, diceva, vedendo la delusione nel suo volto, “mi dispiacque e la abbracciai”. Fatemi capire: di solito in quei frangenti si reagisce tirando una manata?
Si parlava poi di intercettazioni ambientali a danno delle cugine e Sottile con aria da inquisitore chiedeva il parere di due emeriti avvocati dall’accento pugliese e questi, visibilmente imbarazzati, dicevano di non esserne a conoscenza. “Ma avete letto i giornali? Tutti i giornali ne parlano!” incalzava Sottile, al che uno dei due, il più risoluto, rispondeva: “Sa, noi non ci basiamo su quello che dicono i giornalisti…”
Con un sospiro di sollievo ho spento la tv (stava partendo un altro servizio strappalacrime sulla stanchezza di Sabrina), ma nemmeno l’eroico coraggio di quell’avvocato di Gallipoli mi ha calmato i bollenti spiriti, soprattutto immaginando quante ne possano aver dette in questi giorni maestri come Barbara d’Urso, Lamberto Sposini, Rita dalla Chiesa, Mara Venier, Milo Infante. Aldilà dell’efferatezza dell’omicidio familiare (non accade per la prima volta oggi: è uno dei primi reati che vengono annotati nella Bibbia), anche a ‘sto giro mi turba tutto ciò che ci viene costruito sopra, mediante questo meccanismo perverso volto a creare una fiction sul delitto, dove imperversano le telecamere e i registi (cfr. i maestri di prima) ma dove la vittima muore davvero e il sangue non è pomodoro. E, come succedeva nell’epoca gloriosa dei cineforum, tutto il paese si scatena a recensire la fiction e a giudicare gli attori. In questo clima avido di storie cruente e gialle, ecco che dai piani alti mediatici si fa di tutto per dare in pasto al popolo brandelli di carne viva, cioè dettagli di pura fiction.
Così la giornalista di Repubblica giudica Sarah “misteriosa” solo perché ascolta allo stesso tempo Tiziano Ferro e il rock, e Barbara Palombelli infanga con nonchalance la dignità delle cugine. E poi: perché un Mario Rossi invoca su Facebook la pena di morte per Misseri? Perché una ragazza qualunque di Rimini si prende la briga di scrivere una lettera minatoria alle cugine augurando loro di fare la stessa fine di Sarah? Queste persone sembrano quei paladini della giustizia che si vedono nei film western, dove il Buono (in quanto buono solo perché il regista gli ha affibbiato quest’etichetta) deve uccidere il Cattivo. Ma, del resto, uno dei fattori di successo dei western è quella sensazione atavica di sadico piacere che si prova nel veder ristabilita la legge di natura.
Finchè, oggi, l’illuminazione. A parziale riscatto dell’atroce caduta di gusto del 6 settembre scorso, su Repubblica Ilvo Diamanti (che, rispetto alla Palombelli, ha avuto la fortuna di leggere Aristotele) interviene sull’argomento, chiudendo così il suo pezzo:
il “fatto criminale”, in Italia, sui media non è guardato come “esemplare” rispetto ai problemi della società e delle istituzioni. Ma come “caso a sé”, “singolare”. Il che ci fa sentire coinvolti, eppure distaccati. Noi: detective, magistrati, giurati. (…) ciò spiega il grande successo di pubblico che ottengono. Perché generano angoscia, ma al tempo stesso rassicurano. Ci sfiorano, ma toccano gli altri. È come sporgersi sull’orlo del precipizio e rirarsi all’ultimo momento. Per reazione si prova senso di vertigine. Angoscia. Ma anche sollievo. E un sottile piacere.
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