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Federalismo, tre passi nel delirio

Per gentile concessione dell’autore, Pierre Carniti, pubblichiamo questo articolo sul tema del federalismo.

 

Secondo i diplomatici americani (nelle note inviate al loro governo) Berlusconi è un pirla compiacente, che può quindi risultare utile. Tanto più che per tacitarlo è sufficiente assecondare il suo smisurato narcisismo. Stando alla lettura delle intercettazioni, anche le disinibite fanciulle frequentatrici delle sue feste esprimono lo stesso giudizio. Accompagnato tuttavia da colorite invettive e volgarità quando lo giudicano non adeguatamente prodigo.

Infine, persino la Lega, dove non fa certo difetto l’idiozia (basti pensare a Calderoli che, non contento di avere definito folle ed incostituzionale la celebrazione della festa per i 150 anni dell’Italia, per fare buon peso ha aggiunto che, se dipendesse da lui, abolirebbe pure la festa del 1 maggio) considera il premier il prosseneta per piazzare sul mercato parlamentare il cosiddetto “federalismo”. Sul perché un uomo simile riesca, malgrado tutto, a rimanere alla guida del governo italiano è questione che intrigherà certamente gli storici del futuro.  Non facendo parte della corporazione mi limito ad osservare che, fino a quando l’attuale Parlamento riuscirà a stare in piedi, la Lega continuerà ad essere la gruccia di Berlusconi nella convinzione che questo le consenta di lucrare una favorevole spartizione del potere e soprattutto un risultato simbolico al quale annette particolare importanza: come l’approvazione del provvedimento che va sotto il nome di “riforma federalista”. Bandiera che sembra esaltare la maggioranza dei leghisti i quali la considerano il vessillo dietro il quale si potrebbe avvantaggiare il Nord a spese del Sud. D’altra parte, come tutte le tifoserie, anche quella leghista è prigioniera dei suoi riti e dei suoi miti che le persone normali faticano a capire. O non capiscono affatto. Tuttavia, sul punto del federalismo uno sforzo di comprensione merita di essere fatto anche da parte di chi considera il leghismo una politica essenzialmente cialtrona. Perché a differenza del tifo calcistico al quale si può rimanere anche del tutto estranei ed indifferenti, questa pastrocchio del federalismo all’italiana finirà per avere conseguenze sulla vita di tutti. E’ quindi opportuno cercare di capire la natura del prodotto che si vorrebbe smerciare. Facendo attenzione soprattutto agli ingredienti che non compaiono sull’etichetta, ma che possono risultare decisivi per stabilire se si tratta di una vivanda commestibile, oppure no. A questo proposito le questioni fondamentali sono, a mio avviso, essenzialmente tre.  Primo. Nel mondo esistono diversi stati federali. Dalla Svizzera alla Germania, dagli Stati Uniti al Canada, dall’India all’Australia, per fare solo alcuni esempi. Si tratta quindi di una forma di organizzazione politica e di governo ben nota. Ma la cosa altrettanto nota è che tutti gli stati federali sono nati per unire realtà politiche precedentemente divise. Non esiste invece un solo esempio al mondo di uno stato unitario che abbia successivamente adottato la struttura federale. Ci sono naturalmente stati unitari centralistici che, nel tempo, hanno deciso di attuare misure di decentramento e di autonomia, maggiore o minore a seconda dei casi e delle esigenze.  Del resto anche nella situazione italiana, sia pure con soluzioni confuse e pasticciate, sostanzialmente di questo si tratta. In effetti, liberato dalla retorica che l’ha sommerso, l’oggetto della discussione è relativo al come ed in che modo riconoscere una maggiore autonomia ai Comuni ed alle Regioni. Infatti, come avviene in tutte le politiche di decentramento, in ballo c’è la decisione di trasferire poteri e risorse dall’alto verso il basso. Mentre nel federalismo si compie il percorso inverso. In sostanza con il federalismo si trasferiscono verso nuove strutture che vengono costituite al di sopra poteri e risorse che avevano invece la loro origine e la loro legittimità esclusivamente in organismi autonomi e preesistenti. Si capisce quindi che il “federalismo” propriamente detto non c’entra nulla con le norme che sono in discussione in Italia.  Si dirà: è giusto, ma in fin dei conti è un problema di scarsa o nessuna importanza. Perché al più investe una questione puramente nominalistica. Non c’è dubbio che in parte lo sia. Bisognerebbe comunque utilizzare sempre anche le parole con maggiore accuratezza. Perché come dice Platone (in Fedone) “Le parole false sono non soltanto un male in se stesse, ma contagiano anche l’anima”. Con tutte le conseguenze che questo contagio può produrre. Il che, purtroppo, è sempre più evidente nel caso italiano.  Secondo. Assieme ai problemi di semantica ci sono quelli che possono rendere praticabile, o meno, un processo di maggiore autonomia locale. Teniamo presente che il caso italiano costituisce un unicum a livello europeo. Il nostro paese ha infatti ancora un assetto territoriale ad alto grado di frantumazione che risale a diversi secoli fa e che sinora non è mai stato sostanzialmente modificato. Nell’Italia del 1871 i Comuni erano 8382. Il fascismo ne abolì alcuni, che almeno in parte furono però ricostituiti dopo la nascita della Repubblica. Tant’è vero che oggi sono ancora la bella cifra di 8101. Inoltre la debolezza del nostro localismo non dipende solo dai troppi Comuni, ma dal fatto che questi sono anche troppo piccoli. Il 70 per cento ha infatti una popolazione inferiore ai 5000 abitanti. Il che rende impossibile realizzare economie di scala ed ancora di più realizzare la necessaria efficienza nell’azione pubblica. Ben altro impatto ha avuto invece la riorganizzazione in Inghilterra. Basti pensare che tra gli anni settanta e novanta i distretti locali hanno enormemente accresciuto le loro densità abitative, essendosi ridotti da 1549 a 522. Lo stesso è accaduto in Danimarca, in Germania, in Belgio ed in diversi altri paesi europei.  A tutto questo si aggiunga che la nuova formulazione dell’articolo 114 della Costituzione è tale da rendere del tutto irrealistico il progetto di pseudo-federalismo su cui si vorrebbe decidere. Esso recita infatti: “la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane e dallo Stato”. Quindi tutti sullo stesso piano e con la stessa dignità istituzionale. Anche il Comune che conta appena 37 abitanti? Oppure la Provincia di Ogliastra che ne conta solo 58 mila? Anche se per raggiungere i circa nove milioni di abitanti della Lombardia è necessario mettere assieme una decina di Regioni (come: Valle d’Aosta; Molise; Basilicata; Umbria; Trentino; Friuli; Abruzzo; Liguria; Marche; Sardegna)? Si, tutti sullo stesso piano. Se non bastasse si deve pure aggiungere che la contraddittorietà e debolezza dell’impianto previsto dal nuovo titolo V della Costituzione è determinata anche dal tipo di relazioni istituzionali che i Comuni possono stabilire con lo Stato e le Regioni. La questione dimensionale si intreccia quindi con quella istituzionale. Perché, a differenza con quanto accade nei modelli storici di tipo federale, da noi la struttura istituzionale non è a “due”, ma a “tre punte”. Infatti accanto a Stato e Regioni, titolari del potere legislativo, ci sono i Comuni che hanno la titolarità del potere amministrativo. Come possiamo constatare sempre più spesso, questo assetto triangolare è di problematico funzionamento. Perché, mentre il Comune è sempre lo stesso, i due regolatori si alternano tra di loro ed a volte si sovrappongono. In particolare per le materie definite concorrenziali. Con conseguenze non proprio desiderabili. D’altra parte, arrivate per ultime e non sempre adeguatamente istituzionalizzate, le Regioni non riescono a controllare sino in fondo i rispettivi territori perché non possono inserirsi tra Stato e Comuni. Tanto più che il titolo V ha ribadito che ai governi locali può essere consentito di sottrarsi alla regolazione regionale. Con gli effetti che ogni giorno si cominciano a vedere. Dal rifiuto dell’Alta velocità, sino alla realizzazione delle grandi opere, oppure ai nuovi tracciati stradali e ferroviari, gli esempi di conflitti tra Stato, Regioni e Comuni, non mancano. Per la verità non manca nemmeno la tendenza opposta che, a volte, implica una vera e propria prevaricazione nei confronti dei governi locali. Questa inconcludente conflittualità non deve però ingannare. Non avendo reali divisioni etniche e linguistiche probabilmente noi non diventeremo mai come il Belgio. Dove (in un paese poco più grande della Lombardia) la realizzazione del federalismo si è tirata dietro persino l’idea di divedere in due finanche il campionato di calcio. Ora infatti ce ne è uno riservato ai Valloni e l’altro ai Fiamminghi. Se non faremo la fine del Belgio, in compenso però non abbiamo nemmeno la tradizione istituzionale della Germania (a cui pure alcuni politici sembrano volersi ispirare quando parlano di federalismo solidale). Soprattutto non abbiamo alcuna propensione all’associazionismo tra territori ed istituzioni. Come quello che si ritrova in Spagna o in Germania. Infatti l’associazionismo volontario coinvolge il 73 per cento dei comuni spagnoli ed il 70 per cento di quelli tedeschi. Ovviamente, nel cosiddetto federalismo, o anche nell’autonomia rafforzata, per esercitare determinate funzioni l’associazionismo si renderà indispensabile. Ma anche questo non sarà un problema da poco. Perché non sarà facile ottenere per costrizione, anche se indotta dalla necessità, ciò che le nostre istituzioni locali si sono sempre rifiutate di promuovere in forma volontaria. In sintesi si può dunque dire che il cambiamento di cui si discute sotto le insegne del “federalismo” preoccupa: sia per il suo carattere confuso, che per la sua pericolosa fragilità. Perché mentre gli espedienti pseudo-federali da un lato tolgono coerenza al centralismo preesistente, dall’altro non sono in grado di prefigurare la nascita di un sistema istituzionale lineare ed efficiente. Ma proprio per questo, se in Italia ci fossero un governo ed una maggioranza responsabili, deciderebbero che, prima di deliberare in materia, varrebbe la pena di riflettere e discutere un po’ più seriamente.  Terzo. Il problema delle risorse con cui finanziare il funzionamento delle maggiori competenze che, con il nuovo ordinamento, verrebbero attribuite a Comuni e Regioni. Su questa materia siamo al raggiro, al vero e proprio imbroglio. Se qualcuno le interpellasse, tutte le persone normali non esiterebbero a rispondere che quando dei compiti vengono trasferiti dallo Stato alla Regioni ed ai Comuni, con essi dovrebbe passare la quota di personale che al centro assolveva a quegli stessi incarichi ed anche la quota di imposte necessarie a pagare il loro funzionamento. Invece nel nostro federalismo all’amatriciana non sarà così. Tutto il personale rimarrà dov’è. E, se come è probabile, aumenterà in periferia, non sono previste diminuzioni al centro. Mentre, per quanto riguarda il finanziamento, sono previsti nuovi balzelli, nuovi aggravi, nuove addizionali, che aumenteranno la pressione fiscale senza che, per altro, a questo debba corrispondere un miglioramento della quantità e della qualità dei servizi. E poiché al peggio non c’è mai fine, alle maggiori entrate corrisponderà anche un aumento delle diseguaglianze. Nel senso che pagheranno ancora di più solo quelli che già pagano. Conoscendo la capacità di indignazione dei ricchi, Berlusconi e Tremonti si sono infatti premurati di assicurare che, con loro al governo, la “patrimoniale” non sarà mai introdotta. In compenso hanno invece previsto una addizionale Irpef. In modo che lavoratori e pensionati (i quali già contribuiscono alle entrate Irpef per oltre il 90 per cento) e da anni sono pure taglieggiati dalla mancata restituzione del fiscal drag possano pure farsi carico del finanziamento del federalismo. Naturalmente la speranza è che le confederazioni sindacali riescano finalmente a trovare tempo e modo per potersene occupare. Secondo i diplomatici americani (nelle note inviate al loro governo) Berlusconi è un pirla compiacente, che può quindi risultare utile. Tanto più che per tacitarlo è sufficiente assecondare il suo smisurato narcisismo. Stando alla lettura delle intercettazioni, anche le disinibite fanciulle frequentatrici delle sue feste esprimono lo stesso giudizio. Accompagnato tuttavia da colorite invettive e volgarità quando lo giudicano non adeguatamente prodigo. Infine, persino la Lega, dove non fa certo difetto l’idiozia (basti pensare a Calderoli che, non contento di avere definito folle ed incostituzionale la celebrazione della festa per i 150 anni dell’Italia, per fare buon peso ha aggiunto che, se dipendesse da lui, abolirebbe pure la festa del 1 maggio) considera il premier il prosseneta per piazzare sul mercato parlamentare il cosiddetto “federalismo”. Sul perché un uomo simile riesca, malgrado tutto, a rimanere alla guida del governo italiano è questione che intrigherà certamente gli storici del futuro.  Non facendo parte della corporazione mi limito ad osservare che, fino a quando l’attuale Parlamento riuscirà a stare in piedi, la Lega continuerà ad essere la gruccia di Berlusconi nella convinzione che questo le consenta di lucrare una favorevole spartizione del potere e soprattutto un risultato simbolico al quale annette particolare importanza: come l’approvazione del provvedimento che va sotto il nome di “riforma federalista”. Bandiera che sembra esaltare la maggioranza dei leghisti i quali la considerano il vessillo dietro il quale si potrebbe avvantaggiare il Nord a spese del Sud. D’altra parte, come tutte le tifoserie, anche quella leghista è prigioniera dei suoi riti e dei suoi miti che le persone normali faticano a capire. O non capiscono affatto. Tuttavia, sul punto del federalismo uno sforzo di comprensione merita di essere fatto anche da parte di chi considera il leghismo una politica essenzialmente cialtrona. Perché a differenza del tifo calcistico al quale si può rimanere anche del tutto estranei ed indifferenti, questa pastrocchio del federalismo all’italiana finirà per avere conseguenze sulla vita di tutti. E’ quindi opportuno cercare di capire la natura del prodotto che si vorrebbe smerciare. Facendo attenzione soprattutto agli ingredienti che non compaiono sull’etichetta, ma che possono risultare decisivi per stabilire se si tratta di una vivanda commestibile, oppure no. A questo proposito le questioni fondamentali sono, a mio avviso, essenzialmente tre.  Primo. Nel mondo esistono diversi stati federali. Dalla Svizzera alla Germania, dagli Stati Uniti al Canada, dall’India all’Australia, per fare solo alcuni esempi. Si tratta quindi di una forma di organizzazione politica e di governo ben nota. Ma la cosa altrettanto nota è che tutti gli stati federali sono nati per unire realtà politiche precedentemente divise. Non esiste invece un solo esempio al mondo di uno stato unitario che abbia successivamente adottato la struttura federale. Ci sono naturalmente stati unitari centralistici che, nel tempo, hanno deciso di attuare misure di decentramento e di autonomia, maggiore o minore a seconda dei casi e delle esigenze.  Del resto anche nella situazione italiana, sia pure con soluzioni confuse e pasticciate, sostanzialmente di questo si tratta. In effetti, liberato dalla retorica che l’ha sommerso, l’oggetto della discussione è relativo al come ed in che modo riconoscere una maggiore autonomia ai Comuni ed alle Regioni. Infatti, come avviene in tutte le politiche di decentramento, in ballo c’è la decisione di trasferire poteri e risorse dall’alto verso il basso. Mentre nel federalismo si compie il percorso inverso. In sostanza con il federalismo si trasferiscono verso nuove strutture che vengono costituite al di sopra poteri e risorse che avevano invece la loro origine e la loro legittimità esclusivamente in organismi autonomi e preesistenti. Si capisce quindi che il “federalismo” propriamente detto non c’entra nulla con le norme che sono in discussione in Italia.  Si dirà: è giusto, ma in fin dei conti è un problema di scarsa o nessuna importanza. Perché al più investe una questione puramente nominalistica. Non c’è dubbio che in parte lo sia. Bisognerebbe comunque utilizzare sempre anche le parole con maggiore accuratezza. Perché come dice Platone (in Fedone) “Le parole false sono non soltanto un male in se stesse, ma contagiano anche l’anima”. Con tutte le conseguenze che questo contagio può produrre. Il che, purtroppo, è sempre più evidente nel caso italiano.  Secondo. Assieme ai problemi di semantica ci sono quelli che possono rendere praticabile, o meno, un processo di maggiore autonomia locale. Teniamo presente che il caso italiano costituisce un unicum a livello europeo. Il nostro paese ha infatti ancora un assetto territoriale ad alto grado di frantumazione che risale a diversi secoli fa e che sinora non è mai stato sostanzialmente modificato. Nell’Italia del 1871 i Comuni erano 8382. Il fascismo ne abolì alcuni, che almeno in parte furono però ricostituiti dopo la nascita della Repubblica. Tant’è vero che oggi sono ancora la bella cifra di 8101. Inoltre la debolezza del nostro localismo non dipende solo dai troppi Comuni, ma dal fatto che questi sono anche troppo piccoli. Il 70 per cento ha infatti una popolazione inferiore ai 5000 abitanti. Il che rende impossibile realizzare economie di scala ed ancora di più realizzare la necessaria efficienza nell’azione pubblica. Ben altro impatto ha avuto invece la riorganizzazione in Inghilterra. Basti pensare che tra gli anni settanta e novanta i distretti locali hanno enormemente accresciuto le loro densità abitative, essendosi ridotti da 1549 a 522. Lo stesso è accaduto in Danimarca, in Germania, in Belgio ed in diversi altri paesi europei.  A tutto questo si aggiunga che la nuova formulazione dell’articolo 114 della Costituzione è tale da rendere del tutto irrealistico il progetto di pseudo-federalismo su cui si vorrebbe decidere. Esso recita infatti: “la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane e dallo Stato”. Quindi tutti sullo stesso piano e con la stessa dignità istituzionale. Anche il Comune che conta appena 37 abitanti? Oppure la Provincia di Ogliastra che ne conta solo 58 mila? Anche se per raggiungere i circa nove milioni di abitanti della Lombardia è necessario mettere assieme una decina di Regioni (come: Valle d’Aosta; Molise; Basilicata; Umbria; Trentino; Friuli; Abruzzo; Liguria; Marche; Sardegna)? Si, tutti sullo stesso piano. Se non bastasse si deve pure aggiungere che la contraddittorietà e debolezza dell’impianto previsto dal nuovo titolo V della Costituzione è determinata anche dal tipo di relazioni istituzionali che i Comuni possono stabilire con lo Stato e le Regioni. La questione dimensionale si intreccia quindi con quella istituzionale. Perché, a differenza con quanto accade nei modelli storici di tipo federale, da noi la struttura istituzionale non è a “due”, ma a “tre punte”. Infatti accanto a Stato e Regioni, titolari del potere legislativo, ci sono i Comuni che hanno la titolarità del potere amministrativo. Come possiamo constatare sempre più spesso, questo assetto triangolare è di problematico funzionamento. Perché, mentre il Comune è sempre lo stesso, i due regolatori si alternano tra di loro ed a volte si sovrappongono. In particolare per le materie definite concorrenziali. Con conseguenze non proprio desiderabili. D’altra parte, arrivate per ultime e non sempre adeguatamente istituzionalizzate, le Regioni non riescono a controllare sino in fondo i rispettivi territori perché non possono inserirsi tra Stato e Comuni. Tanto più che il titolo V ha ribadito che ai governi locali può essere consentito di sottrarsi alla regolazione regionale. Con gli effetti che ogni giorno si cominciano a vedere. Dal rifiuto dell’Alta velocità, sino alla realizzazione delle grandi opere, oppure ai nuovi tracciati stradali e ferroviari, gli esempi di conflitti tra Stato, Regioni e Comuni, non mancano. Per la verità non manca nemmeno la tendenza opposta che, a volte, implica una vera e propria prevaricazione nei confronti dei governi locali. Questa inconcludente conflittualità non deve però ingannare. Non avendo reali divisioni etniche e linguistiche probabilmente noi non diventeremo mai come il Belgio. Dove (in un paese poco più grande della Lombardia) la realizzazione del federalismo si è tirata dietro persino l’idea di divedere in due finanche il campionato di calcio. Ora infatti ce ne è uno riservato ai Valloni e l’altro ai Fiamminghi. Se non faremo la fine del Belgio, in compenso però non abbiamo nemmeno la tradizione istituzionale della Germania (a cui pure alcuni politici sembrano volersi ispirare quando parlano di federalismo solidale). Soprattutto non abbiamo alcuna propensione all’associazionismo tra territori ed istituzioni. Come quello che si ritrova in Spagna o in Germania. Infatti l’associazionismo volontario coinvolge il 73 per cento dei comuni spagnoli ed il 70 per cento di quelli tedeschi. Ovviamente, nel cosiddetto federalismo, o anche nell’autonomia rafforzata, per esercitare determinate funzioni l’associazionismo si renderà indispensabile. Ma anche questo non sarà un problema da poco. Perché non sarà facile ottenere per costrizione, anche se indotta dalla necessità, ciò che le nostre istituzioni locali si sono sempre rifiutate di promuovere in forma volontaria. In sintesi si può dunque dire che il cambiamento di cui si discute sotto le insegne del “federalismo” preoccupa: sia per il suo carattere confuso, che per la sua pericolosa fragilità. Perché mentre gli espedienti pseudo-federali da un lato tolgono coerenza al centralismo preesistente, dall’altro non sono in grado di prefigurare la nascita di un sistema istituzionale lineare ed efficiente. Ma proprio per questo, se in Italia ci fossero un governo ed una maggioranza responsabili, deciderebbero che, prima di deliberare in materia, varrebbe la pena di riflettere e discutere un po’ più seriamente.  Terzo. Il problema delle risorse con cui finanziare il funzionamento delle maggiori competenze che, con il nuovo ordinamento, verrebbero attribuite a Comuni e Regioni. Su questa materia siamo al raggiro, al vero e proprio imbroglio. Se qualcuno le interpellasse, tutte le persone normali non esiterebbero a rispondere che quando dei compiti vengono trasferiti dallo Stato alla Regioni ed ai Comuni, con essi dovrebbe passare la quota di personale che al centro assolveva a quegli stessi incarichi ed anche la quota di imposte necessarie a pagare il loro funzionamento. Invece nel nostro federalismo all’amatriciana non sarà così. Tutto il personale rimarrà dov’è. E, se come è probabile, aumenterà in periferia, non sono previste diminuzioni al centro. Mentre, per quanto riguarda il finanziamento, sono previsti nuovi balzelli, nuovi aggravi, nuove addizionali, che aumenteranno la pressione fiscale senza che, per altro, a questo debba corrispondere un miglioramento della quantità e della qualità dei servizi. E poiché al peggio non c’è mai fine, alle maggiori entrate corrisponderà anche un aumento delle diseguaglianze. Nel senso che pagheranno ancora di più solo quelli che già pagano. Conoscendo la capacità di indignazione dei ricchi, Berlusconi e Tremonti si sono infatti premurati di assicurare che, con loro al governo, la “patrimoniale” non sarà mai introdotta. In compenso hanno invece previsto una addizionale Irpef. In modo che lavoratori e pensionati (i quali già contribuiscono alle entrate Irpef per oltre il 90 per cento) e da anni sono pure taglieggiati dalla mancata restituzione del fiscal drag possano pure farsi carico del finanziamento del federalismo. Naturalmente la speranza è che le confederazioni sindacali riescano finalmente a trovare tempo e modo per potersene occupare.
Michele Lupetti

Colui che nel lontano 2006 ideò tutto questo. Fondatore e proprietario di ValdichianaOggi, dopo gli inizi col blog "Il Pollo della Valdichiana". Oltre a dispensare opinioni sulle cose locali è Beatlesiano da sempre (corrente-Paul Mc Cartney), coltiva strane passioni cinematografiche e musicali mescolando Hitchcock con La Corazzata Potemkin, Nadav Guedj con i Kraftwerk. I suoi veri eroi, però, sono Franco Gasparri, Tomas Milian, Maurizio Merli, Umberto Lenzi... volti di un'epoca in cui sarebbe stato decisamente più di moda: gli anni '70

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Michele Lupetti

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