{rokbox title=| :: |}images/cantiere.jpg{/rokbox}Di seguito il primo contributo in stile “diario” inviatoci dalla giovane cortonese Giulia Simeoni, impegnata in questi giorni a Srebrenica, Bosnia, per un progetto di cooperazione internazionale promosso da Arci Arezzo. Giulia ci regala con questo “diario” dalla ex-Jugoslavia il suo racconto di terre devastate dalla guerra civile nella quali le ferite di quel terribile e fratricida conflitto sono ancora ben visibili. Buona lettura
Sono ormai 24 ore che siamo partiti dal campo. Siamo a Tuzla con i ragazzi olandesi del festival Mundial di Tilburg, che si occupano della direzione artistica di Tuzla Wave. Una piccola nota di colore, tanto piacevole quanto estranea a tutto ciò che fino a poco fa scorreva sotto i miei occhi.
Ed è proprio a questo che adesso scivolano i miei pensieri, alle storie dei nostri amici bosniaci, la storia dei luoghi, il lavoro che abbiamo fatto, ma sono i sentimenti i protagonisti della nostra storia.
Abbiamo faticato tanto, dalla raccolta dei cetrioli, alla distribuzione di mobili, agli scavi delle tubature, al cantiere, ma non è questo che ci porteremo dentro.
Saranno le nostre storie di amicizia e la vita in comunità, le promesse di rivederci a Srebrenica o altrove, perché qui si sono incontrate delle persone che condividono dei sogni. Persone come Elena, mia compagna d’avventura, che quando le chiedo quale sia il suo pensiero sulla nostra esperienza al campo di volontariato, non riesce a non rifugiarsi in parole come “MALINCONIA, MAGONE, IMMAGINI CHE SI RIPROPONGONO NELLA MENTE”. Persone come Farida, la ragazza dell’organizzazione che si è occupata di noi, che ha perso il padre durante la guerra, era profuga in Italia, sua madre aveva 25 anni e tre bambini piccoli. Del padre non hanno avuto più notizie finchè non sono tornati e non hanno trovato che un pezzo di un osso. Persone come Medina, che non ricorda nulla, a mala pena del campo profughi in Slovenia con la madre e la zia, dove ha passato un anno aspettando che arrivassero i documenti per la ricongiunzione con il padre che già lavorava in Italia…e persone come Elvin, che invece la parola guerra non la vuole proprio sentire nominare.
{rokbox title=| :: |}images/cimitero.jpg{/rokbox}Lui è venuto al campo perchè ha sentito parlare di queste persone che stanno cercando di ricostruire un paese e voleva essere lì con loro. Insieme abbiamo scavato per la costruzione di un giardinetto per bambini e quando la signora del condominio mi ha visto lavorare insieme ai ragazzi e fare le loro stesse cose è venuta là, mi ha preso a braccetto e mi ha portata in casa sua offrendomi frutta, pita e caffè. Non parlavamo la stessa lingua, ma non ce n’era bisogno, non a Srebrenica. Per qualcuno la nostra presenza qui è stata un atto di resistenza, resistenza a quello che è la nostra vita di tutti i giorni nelle società occidentali che nella quotidianità hanno perso i valori umani nel nome di interessi ipocriti, del consumismo e dell’individualismo. Società dello spettacolo di cui le nostre vite fanno parte e in cui non ci rispecchiamo.
Abbiamo parlato delle motivazioni che ci hanno portato qui, dal bisogno di cambiare, alla voglia di conoscere, vedere, partecipare e capire, al bisogno di fare esperienze che ci dicano che la vita è qualcosa di più di soldi, vestiti e televisione. Se questo qualcuno abbia ragione o meno non debbo essere io a dirlo. Quello che posso dire è che è impossibile non riflettere, non dopo aver visto Srebrenica. Nella speranza di poter far scaturire nel maggior numero di voi lettori queste riflessioni, noi ragazzi di Arezzo stiamo cercando di organizzare una serata in cui mostrare le nostre foto e raccontare cosa ha significato per noi questa esperienza e perchè il prossimo anno saremo sicuramente di nuovo qua.
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