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Mentre i nostri rappresentanti, governanti e oppositori, non trovano di meglio che discutere se il Presidente del Consiglio debba o no recarsi dai giudici di Milano per chiarire alcuni punti oscuri della vicenda “Ruby”, il Fondo Monetario Internazionale corregge la previsione di stima della ripresa economica prevista per il nostro paese: si passa dal 1,3 all’1% del P.I.L., a fronte di un incremento previsto per i paesi della comunità europea dell’ 1,5% (con punte della Germania del 3,5% e della Francia del 2,5 ) e a livello mondiale del 4,4%.
Di fronte ad un quadro di questo tipo non saranno più sufficienti contratti-ricatto come quelli accettati, obtorto collo, dai lavoratori Fiat di Pomigliano e Mirafiori ma, come affermava la presidente di Confindustria qualche giorno fa, “…è necessario investire nella scuola e nella ricerca per ricreare nuove figure di tecnici che con la loro volontà, fantasia e capacità siano in grado di rilanciare la produzione del ‘made in Italy’ che ci ha da sempre distinto nel mondo. Ma” proseguiva la presidente “devo registrare che il governo in questi ultimi mesi non ha fatto nulla”.
Necessario sicuramente approdare a nuove relazioni sindacali; ma se si cambia il rapporto tra imprese e sindacati non si può certo pensare di scaricare tutto il peso su uno solo dei fattori di produzione: il lavoro. Anche l’altra parte, quella manageriale e imprenditoriale, deve entrare in gioco, impegnandosi nell’innovazione dei processi e dei prodotti, aumentando anche la propria produttività. In questo, probabilmente, sta il limite più grosso del modello-Marchionne.
Necessario quindi pensare un nuovo modello sociale e di rapporti di lavoro che preveda impegni, oneri e forme di controllo reciproche, per chi lavora e chi fa lavorare, per chi ci mette la manodopera e chi la capacità manageriale.
Ma opportuno è anche iniziare a pensare ai nuovi settori, quelli del futuro, riconvertendo per quanto possibile quelli in crisi rilanciandoli su questa nuova strada.
Esiste, secondo alcuni studi, la prospettiva concreta di 250.000 nuovi posti di lavoro, in Italia, nel settore della green economy e delle energie rinnovabili. E’ questo solo un frammento di un nuovo scenario che potrebbe aprirsi: il lavoro sostenibile, un patto tra imprese e sindacati che crei occupazione in tempi rapidi nei settore dell’efficienza energetica e delle fonti rinnovabili.
“Stiamo vivendo un passaggio simile a quello che ha segnato il trapasso dall’epoca del carbone a quella del petrolio: è una transizione che nel tempo assicurerà all’Italia milioni di posti di lavoro e trasformerà il panorama politico creando una democrazia energetica. Tutte le case si trasformeranno in mini centrali con un flusso continuo di energia in entrata e in uscita: non si dovrà più dipendere dagli oligopoli, ma si avrà un interscambio continuo tra milioni di sorgenti energetiche. Un po’ come avviene oggi nel Web: il sistema verticale, dall’alto al basso, è stato sostituito da un sistema orizzontale, a rete, più sicuro ed affidabile”. Tutto questo lo dichiarava il Prof. Rifkin qualche giorno fa. Mi permetto di aggiungere che non solo tutto questo è possibile, ma se guardiamo oltre la produzione di elettricità, che è meno di un terzo dell’energia che usiamo, scorgiamo altri campi di intervento: la necessità di avere più caldo o più fresco, una necessità che aumenterà con il progredire dei cambiamenti climatici, e quindi significherà dover mettere mano agli edifici. Dovranno essere meglio disposti, più isolati, capaci di produrre l’energia che consumano: questo vorrà dire sviluppare la ricerca, innovare i materiali, moltiplicare le mini rinnovabili, creare manodopera specializzata nella costruzione dei nuovi sistemi, nella loro installazione, nell’edilizia bioclimatica. Poi c’è lo sviluppo del trasporto sostenibile, l’auto elettrica, lo sviluppo dell’impiego dell’idrogeno, le batterie per accumulare energia pulita da mettere in rete quando l’auto non viene usata.
Questa è la sola via che può trovarci pronti quando ripartirà l’economia. Ma questo la politica lo vuole?