{rokbox title=| :: |}images/acqua3.jpg{/rokbox}Sembra andare molto bene, a quanto dicono i promotori, la campagna per la raccolta di firme per la proposta di referendum sul tema dell’acqua pubblica. L’obiettivo dei referendari è quello di riportare alla mano pubblica, senza alcun apporto di società private, il ciclo idrico integrato.Fermare la privatizzazione, aprire la strada alla ripubblicizzazione e fermare i profitti sull’acqua, sono gli slogan che accompagnano i tre quesiti. Nelle motivazioni pubblicate nel sito dei promotori è chiaramente esplicitato l’obiettivo di rendere il servizio privo di “rilevanza economica” per ricondurlo ad uno status di “… diritto umano e diritto fondamentale dei cittadini, assolutamente, nella sua quantità vitale, non subordinabile a qualsiasi logica mercantile ed economica di profitto, da gestirsi anche “nell’interesse delle generazioni future”.
Ma l’acqua è un bene pubblico?
Per chi scrive assolutamente sì ma questo conta relativamente.
Conta di più che lo sia per lo stato. La nostra legislazione lo sancisce – almeno sul piano formale e io credo anche sostanziale – dall’entrata in vigore della legge Galli (5 gennaio 1994).
L’articolo 1 della citata legge recita:
La stessa legge, all’art. 2 sancisce la priorità dell’uso idropotabile
Ed è sempre la legge Galli che introduce il principio della separazione fra proprietà e gestione, indicando per quest’ultima, fra i soggetti affidatari, anche società private o miste.
Anche la tariffa è un argomento al centro delle rivendicazioni di associazioni e partiti che in questi anni hanno promosso varie campagne per la ripubblicizzazione dell’acqua. Una tariffa che cresce in modo sensibile nelle realtà dove è stata avviata la riforma voluta dalla legge, la quale impone, per la sua determinazione, che essa copra il 100% dei costi, compresi gli investimenti e una adeguata remunerazione sul capitale investito. Troppo per le associazioni che spesso rappresentano cittadini e consumatori e che sono fortemente contrarie alla privatizzazione.
Il partito Democratico della Toscana ha approvato un documento su questa rilevante materia, un documento che dice no alla privatizzazione del servizio idrico, no al ritorno ad una gestione comunale frammentata e inefficiente e sì ad un sistema che coniughi la programmazione e il controllo, saldamente in mano alla proprietà pubblica, con una gestione imprenditoriale ed efficiente del servizio.
Su questo tema – e non solo su questo verrebbe da dire – una impostazione ideologica non aiuta la ricerca delle migliori soluzioni. Un dibattito prevalentemente orientato sul conflitto pubblico privato, distoglie dai veri obiettivi che un paese moderno – come il nostro vorrebbe essere – su questa – come su altre grandi e importanti questioni (vedi quella dei rifiuti) – dovrebbe perseguire, nell’interesse, non di qualcuno, bensì della collettività.
Mettere al centro l’interesse comune non ha, automaticamente come migliore soluzione quella di indicare la gestione pubblica del servizio. Ci si dimentica, troppo facilmente, del perché questo paese ha avuto bisogno di una legge di riforma in questo settore.
Cosa ha a che fare con l’interesse comune, in particolare dei cittadini, dei consumatori e soprattutto delle – da tutti citate – future generazioni, un sistema diviso e frammentato (gestioni comunali), incapace per questo di mettere insieme – e quindi solidarizzare e socializzare – l’uso della risorsa e gli investimenti per tutelarla?
Cosa ha a che fare con l’interesse pubblico (di tutti, mi ripeto, cittadini, consumatori, future generazioni) rimpiangere un sistema che già quando la finanza locale non era nelle drammatiche condizioni in cui oggi versa – e non si scorgono miglioramenti all’orizzonte, anzi – non investiva in strutture e risorse materiali e umane, non si poneva quale primario obiettivo quello di garantire un servizio di qualità insieme alla tutela della risorsa (il 40% dell’acqua se ne va nell’obsolescenza delle tubature, mi si deve convincere che di questo ne abbiano responsabilità le società private intervenute dopo la legge di riforma…), non investiva nella costruzioni di depuratori.
Si pagava meno però. E questo è senz’altro vero, anche se dubito nella misura in cui molto spesso si sente dire. Ma occorre dire che ciò è dovuto al fatto che adesso la tariffa, diversamente dal sistema precedente, copre per intero il costo del servizio. Prima non era così e la parte non coperta, veniva comunque pagata dai cittadini, anche se all’interno di altre imposte. Difficile però immaginare quello precedente come un sistema in grado di misurare il rapporto fra qualità del servizio e corrispettivo pagato. Difficile che i comuni, titolari delle gestioni dirette, di fonte alla prospettiva dell’aumento tariffario, anche consistente, si ponessero l’obiettivo di migliorare il servizio e la qualità delle risorse.
Oggi è necessario rendere questo possibile, in un patto trasparente fra proprietà e gestione, con chiari obiettivi ai quali corrispondano costi sostenibili e riconducibili all’interesse del cittadino consumatore e del territorio. Non tutto quello che è accaduto dopo la legge Galli soprattutto qui ad Arezzo è valido e difendibile. Ci sono senza dubbio cose da rivedere. Alcune di queste riguardano il ruolo degli enti che hanno il compito di presidiare il principio dell’acqua come bene comune e risorsa pubblica. Occorre una maggiore capacità e competenza per assolvere adeguatamente il ruolo di programmazione e di controllo che spetta ai comuni. Occorre che a questi si affianchino altri organismi, in grado di rappresentare il cittadino utente e consumatore. E ci vogliono soggetti terzi (authority), più forti e autorevoli, per evitare che nel rapporto fra proprietà pubblica e gestione che può vedere in campo soggetti privati ne rimanga penalizzato l’interesse collettivo.
Su questo dovremo lavorare, anche cercando collaborazioni e dialogo con i promotori del referendum che hanno il merito, indiscutibile, di aver portato al centro dell’attenzione questo grande tema.
tratto da http://assieme.pdcortona.it
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