{rokbox title=| :: |}images/marciaquarantamila.jpg{/rokbox}Il prossimo 14 ottobre ricorrono 30 anni dalla marcia dei 40 mila “colletti bianchi” (detti anche ‘quadri’) della Fiat Mirafiori nelle strade di Torino. In questi giorni su tv e giornali sono in corso le ricostruzioni storiche, con testimonianze di chi giocò in quella vicenda un ruolo da protagonista. E’ opinione comune che quella marcia, 40mila dipendenti che chiedevano di poter tornare a lavorare contestando il blocco della produzione in corso da 35 giorni, segnò una svolta epocale per il nostro paese sancendo la fine del concetto di sindacato unitario (che riuniva tutte le sigle e tutte le categorie) e soprattutto fu il primo segnale forte di una conflittualità tra lavoratori e sindacati che si sarebbe acuita negli anni successivi, ponendo un problema di rappresentanza.
Tutto questo è indubbiamente vero.
All’origine di tutto, in quell’Ottobre 1980, c’era l’ennesima crisi dell’azienda torinese che non riusciva più a reggere la concorrenza degli altri marchi automobilistici mondiali. I guadagni dei momenti d’oro, infatti, non erano stati utilizzati per aggiornare e ristrutturare la produzione, ma per effettuare investimenti in altri settori, principalmente in campo finanziario. Una scelta strategica che non pagò e che fece sentire dopo poco tempo i suoi effetti. L’impressione di quei giorni, per chi come me li visse dalla parte di coloro che rischiavano il licenziamento, era quella che per l’ennesima volta si stesse cercando di scaricare gli errori dirigenziali sui lavoratori, ma anche sullo Stato, di cui si contestava l’interventismo salvo poi chiedere aiuti economici e mediazioni politiche quando ce n’era bisogno. Un atteggiamento che risultava inaccettabile.
Dopo l’annuncio dei 14.449 licenziamenti, poi trasformati in cassa integrazione a zero ore per 22.000 operai, Torino, in un preoccupante clima infuocato tipico del periodo degli anni di piombo, si bloccò. Mentre cresceva la protesta senza troppa autorevolezza il Governo tentò un’opera di mediazione che si sarebbe rivelata fallimentare, tanto da portare il Presidente del Consiglio Cossiga alle dimissioni. La Fiat non voleva recedere dalle proprie intenzioni, facendo dell’intansigenza una volontà incrollabile. A tale intransigenza si contrapponeva quella sindacale, alla quale si affiancò il PCI con Berlinguer che, in un famoso discorso davanti ai cancelli di Mirafiori strumentalizzato da certa stampa, assicurò l’appoggio del partito all’iniziativa degli operai.
Romiti e soci, in modo indubbiamente lungimirante, capirono però che non erano più i tempi degli ‘autunni caldi’, che qualcosa stava cambiando e che quello poteva essere il momento per azzardare una ‘spallata’. Fu così che il 14 Ottobre 1980, in una giornata quasi invernale, sfilarono per le strade cittadine un numero di ‘quadri’ superiore ad ogni più rosea previsone, con una manifestazione sostenuta magistralmente (non senza colpi bassi) dalla dirigenza FIAT. Un episodio che di fatto pose fine alla questione, costringendo le sigle sindacali a interrompere la lotta accettando quasi del tutto passivamente le richieste della Fiat.
Quella del 1980 fu una grande battaglia, e fu una grande sconfitta per il mondo operaio, che di colpo si ritrovò separato dal resto della società italiana, senza quel ruolo centrale che aveva rivestito nei decenni precedenti. Tutto da rivedere quindi, tutto da rifare, anche per il Sindacato e per lo stesso Partito Comunista, due soggetti che entrarono in un difficile tunnel.
Il problema è però che in 30 anni a quella ‘marcia’ che produsse una frattura pesante tra operai ed impiegati, tra i lavoratori più pagati e quelli meno pagati, tra quelli con il posto sicuro e quelli precari non è mai seguita una risposta diversa da quella di martoriare, ad ogni accenno di crisi, i diritti di tutti. Ultimo caso quello di Pomigliano. Arriva una crisi e a pagarla è sempre chi sta in posizione più debole e che di quella crisi è probabilmente il meno responsabile. La paga coi licenziamenti, la paga con la precarietà, la paga con la perdita dei diritti anche più elementari. E quella fascia debole di fronte a tutto questo si divide, si frammenta in mille e mille minuscole micro-vicende personali. La ricorrenza dovrebbe farci riflettere. In quel 1980 finì un’epoca, ma quella successiva attende ancora un modello sociale di sviluppo che sappia fornire risposte eque per tutti. Risposte che non possono certo essere l’annullamento totale dei diritti, con la scusa della competitività internazionale.
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