La notizia della vendita a privati dell’Ospedale di Cortona mi ha profondamente addolorato. Sono intervenute un po’ tardivamente le forze politiche che hanno espresso riserve su questa operazione e hanno ricordato proposte ed iniziative per garantire una destinazione pubblica all’edificio.
Nessuno ha ricordato l’Ospedale, la sua importanza, la sua ragione di essere all’interno del Centro Storico, la sua storia centenaria riassunta da due targhe marmoree affisse sotto il porticato di questo gigante ferito ed addormentato.
Un Ospedale non è un edificio qualunque da dismettere e da destinare ad altre attività.
E’ un luogo nel quale si respira profondamente la sacralità della vita: si nasce e si muore, affidiamo ai medici la nostra salute, possiamo entrarvi per uscirne o non uscirne più. Quando mi arrampico per via Maffei evito accuratamente di passarci davanti perché la malinconia è struggente. Mi viene in mente l’ultima scena del Titanic che emerge dal buio degli oceani e si riempie di vita. Si ripopola il salone delle feste, si riempiono di persone gioiose i ponti, tutti ti guardano, sorridono e ti vengono incontro. Dalla morte fa capolino la vita ma è soltanto l’illusione di un attimo.
Rivedo le infermiere, i medici con il loro camice bianco, il carrello con le vivande, le inservienti a fare le pulizie in un contesto ambientale perfetto a disposizione della nostra comunità.
Perché ne parlo? Perché nel lontano 1980, colpito da una malattia infettiva, ci ho trascorso un mese di vita. I primi giorni li ho passati in una stanza con altri ammalati poi ricordo un infermiere che, subito dopo pranzo, si è avvicinato al mio letto, sussurrandomi con deferenza e discrezione: “Sig. Turenci venga con me, la porto in un posto dove starà meglio”. Abbiamo percorso un corridoio per salire una scala stretta e ripida in pietra al termine della quale c’erano due stanze attigue entrambe con bagno. Confesso di aver pensato ad un trattamento di favore. Sarebbe stato il primo, da consigliere comunale, perché non ho mai goduto di alcun privilegio. Andato via l’infermiere, a fugare ogni dubbio sulle mie condizioni di salute, è stata la targa fuori dalla porta che non avevo letto per dilungarmi nei convenevoli: “Reparto isolamento”. Passavo le giornate lunghissime alla finestra a guardare il cielo ed i tetti di Cortona. Il tempo era scandito dai pasti, dalle viste dei dottori e da quelle di amici e conoscenti. Non esistevano cellulari, non c’era la televisione, non si era connessi (…), il tempo scorreva lentamente tra letture e pensieri di ogni genere. Alcuni giorni dopo il ricovero stavo già meglio anche se proseguiva la terapia giornaliera con le flebo. Davo segni d’insofferenza perché mi annoiavo a morte e ho preteso un tavolo per riparare i modelli ferroviari che colleziono. Medici ed infermieri erano perfetti, gentili, disponibili. Mangiavo purè in quantità industriale e sulle porzioni generosissime hanno fatto più di uno strappo alla regola. Avevo fatto amicizia con il personale delle pulizie e con le infermiere. Non mi sembrava più neanche un ricovero. I “pazienti” (…) erano loro e le mie erano soltanto esigenze da soddisfare. Quando sono uscito, dopo un periodo che mi è sembrato interminabile, mi sono precipitato in Rugapiana con l’ansia di tuffarmi tra la gente e, soltanto allora, ho avuto la sensazione di essermi riaffacciato nuovamente alla vita e di essere guarito. Una volta negli ospedali si nasceva e si moriva. Ricordo le camere mortuarie all’inizio del vicolo in discesa che costeggia l’ospedale, nelle quali si respirava un’atmosfera grave e solenne. Vi ho reso l’estremo omaggio a tanti amici. Uno su tutti Aldo Cardosi che veniva ai miei comizi, aveva una gobba spaventosa ma anche un cuore grandissimo. E’ morto poverissimo in un fondo dopo essere stato raggirato da persone inqualificabili che gli hanno portato tutto. Sono andato a trovarlo con il mio amico Renato Morini e non volevo credere che fosse morto perché quella condizione per me rimane un mistero. Renato, vedendomi turbato, mi ha detto poche parole che non mi sono più tolto dalla mente: “Chi ha paura della morte ha paura della vita”. Nell’Ospedale di Cortona sarei entrato altre volte a trovare Renato che aveva problemi cardiaci ed il Dott. Muzio Chieli che aveva subito un delicato intervento chirurgico. Aveva una dignità grandissima: non voleva assolutamente che lo vedessi a letto. Quando entravo nella sua stanza, anche se era sofferente, si alzava subito per indossare un’elegante giacca da camera e ricevermi. Una grande persona della quale ho avuto sempre soggezione. Un medico bravo e disponibile che aveva valori ed ideali identici ai miei.
Ho voluto ricordare un ospedale che è stato anche un pezzetto della mia vita. Ringraziando Dio dopo non mi sarei più ammalato e non sarei mancato neanche un giorno al posto di lavoro.
Vado all’Ospedale della Fratta ogni tre mesi a donare il sangue e non me ne vogliano i cortonesi ma mi sembra un’astronave precipitata per sbaglio tra le Case Leopoldine delle Bonifiche Ferraresi. L’ho sempre considerato un giocattolo enorme, inutile e costoso, consacrato alla logica della politica che qualcuno ha voluto impreziosire, peggiorando la situazione, con le due enormi vasche in marmo sottratte al porticato del vecchio ospedale.
Cosa mancava all’Ospedale S.Margherita per continuare ad assolvere la sua storica funzione a favore della cittadinanza cortonese e dei comuni vicini?
I posti letto erano largamente sufficienti. Un parcheggio dignitoso? A poche centinaia di metri, a Porta Colonia, si poteva realizzare un parcheggio multipiano con impatto ambientale zero ed un accesso facilissimo al Centro Storico.
Sono mancati, dispiace dirlo, l’amore ed il rispetto per Cortona e la sua gente, un briciolo di lungimiranza ed una programmazione oculata delle risorse disponibili che non devono essere dismesse per essere affidate ai privati e alla speculazione ma valorizzate per essere patrimonio di tutti.
Ora nel luogo dove “si nasceva e si moriva” si respira davvero l’atmosfera lugubre della morte e dell’abbandono. E’ morta la speranza se ci costringono a pensare, convincendoci, che Cortona ha fatto un buon affare ed, in fondo, non si poteva fare meglio. Voglio trovare il modo di farmi dare le chiavi per salire di nuovo quella ripida scala in pietra, riconoscere quel posto ed affacciarmi dalla finestra per ritrovare il cielo azzurro e le rondini dei miei 24 anni.
Mauro Turenci
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