Un mite pomeriggio di settembre ti ritrovi a Foiano e in una piazza del centro storico ti imbatti in un flash mob, una di quelle manifestazioni estemporanee che hanno come obiettivo quello di trasmettere emozioni e suscitare riflessioni su dei temi precisi. Davanti a te 72 donne vestite di bianco che cadono a terra appena viene pronunciato il nome che portano al collo “… Antonella, Stefania, Nunzia..”, nomi comuni, nomi femminili. Un elenco senza fine, in continuo aggiornamento, senza tregua, un vero e proprio bollettino di guerra.
Uccise con armi da fuoco, con percosse, strangolate, soffocate, gettate dalla finestra, ma tutte uccise da uomini: mariti, fidanzati, fratelli e padri. Eccole, sono loro le vittime innocenti di questa società. E’ inutile snocciolare dati e numeri, ormai sono noti e facilmente trovabili: una donna uccisa ogni due giorni. Se poi a questo elenco aggiungiamo tutte le donne violentate, beh, sicuramente avremmo una media più alta, all’incirca due donne al giorno. Di fronte a tutto questo rifletti e ti chiedi cosa posso fare; domanda che io mi pongo sia come donna che come amministratrice.
Stiamo assistendo a una regressione culturale nel nostro Paese che, invece, ci viene mostrata come emancipazione. La destrutturazione dei diritti e il continuo smantellamento del tessuto sociale ci porta a vedere l’altro come un nemico, un ostacolo nella nostra vita, nella nostra carriera.
Di chi è la colpa? Dei media, in primis. Il giorno dopo un femminicidio i giornalisti cercano la causa, il motivo del gesto. Non nascondiamoci dietro motivazioni apparentemente vere ma poco plausibili. Questi omicidi non si commettono per gelosia o follia o paura, hanno significati più profondi sono violenze di genere. Non so se dare un nome alle cose cambierà l’atteggiamento dei nostri media, ma sicuramente nominare qualcosa la rende reale e forse si smetterebbe di parlare di raptus e gesti incontrollati e usare il termine femminicidio potrebbe essere un inizio. Anche perché porterebbe, spero, altre persone a domandarsi e a cercare di capire cosa questo termine stia a significare e magari vedere che dietro i numeri ci sono delle storie, simili alle nostre, c’è un’ intera cultura che deve essere sradicata, la cultura del possesso, dello svilimento, del mancato rispetto. E certo non aiuta lo stereotipo televisivo della donna: bella, immobile e silenziosa, un oggetto, insomma; che crea dei meccanismi strani nelle relazioni tra i due sessi, da entrambe le parti.
Ma il sistema culturale non viene creato solo dai media, ma anche dal sistema politico. Negli ultimi anni la politica è rimasta a guardare, in silenzio. A poco è servito il monito dell’Onu e l’inchiesta aperta per l’elevato numero di femminicidi in Italia, che ha portato a marzo scorso, l’esperta Rashida Manjoo a Roma per presentare i primi risultati di un monitoraggio continuo nel nostro Paese. Anzi, tutte le politiche di revisione della spesa e di tagli spesso coinvolgono le forze dell’ordine e le Istituzioni che nei territori dovrebbero preoccuparsi di prevenzione e accoglienza. Così si lasciano le donne sole, nelle mani dei loro carnefici. Qualcosa dobbiamo fare: formazione scolastica, informazioni, dibattiti; qualsiasi cosa è giusta purchè si torni a parlare di questo problema, di questa piaga sociale.
Si sa, appena cala l’attenzione su un tema questo va alla deriva senza controllo, senza freno; e come dicevano ieri alcuni cartelloni ai bordi della piazza, la prossima potrei essere io.
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