E’ cosa risaputa che i giornali evidenziano le notizie in modo diverso, leggendo oggi il Corriere della Sera e l’Avvenire questa cosa assume contorni grotteschi e offre lo spunto per qualche considerazione. L’oggetto è uno degli ultimi rapporti della corte dei Conti, il quotidiano milanese titola “Corte dei conti: produttività in calo. Ogni cittadino spende 2.849 euro per i dipendenti pubblici”, mentre il giornale dei vescovi sottolinea : “Statali, i dubbi della Corte dei Conti : i tagli agli organici penalizzano i servizi”. E’ solo un modo di leggere in maniera diversa i numeri?
Io penso che ci sia qualcosa di più, sono due visioni del mondo e della economia contrapposte, da una parte l’idea di ridurre all’osso lo Stato, usando come argomento i costi del personale, “vedete quanto ci costano questi fannulloni?” , una soluzione semplice ed efficace alla esasperazione della gente. Dall’altro l’idea che oltre alla sfera dell’economia esista un altro mondo che è fatto di persone, di famiglie e aggiungo di imprese che senza il supporto ed il sostegno dello Stato finirebbero male.
Questo non significa ovviamente che nel sistema statale non vi siano enormi sacche di inefficienza e di sperperi, basta guardare dove è aumentata la spesa pubblica negli ultimi anni senza che questo abbia portato benefici ai cittadini. Così come non sarebbe uno scandalo introdurre anche nei contratti statali elementi di privato per cui vagabondi e “furbetti” possano essere licenziati senza le infinite reti di protezione di cui godono.
Ma da questo a pensare che lo Stato è di per se un costo è operazione sbagliata e pericolosa. Si indica cioè una falsa pista alle tantissime persone che in questo momento soffrono a causa della crisi: durante la famosa carestia di Milano la gente se la prendeva con i fornai e non con gli speculatori che tenevano bloccate le derrate per fare aumentare i prezzi. Oggi si prova da più parti di canalizzare la rabbia verso lo Stato perdendo di vista che la crisi che stiamo attraversando è una crisi globale dovuta ai traffici finanziari, ad una concorrenza sleale di altri paesi ,alla incapacità di mitigare il rigore con la crescita e ad una iniqua distribuzione della ricchezza.
Per questo mi pare opportuno il richiamo dell’Avvenire, quando sottolinea che uno stato per definirsi tale deve garantire servizi (efficienti) ai cittadini e non può scaricare, come fossero una zavorra, coloro che sono maggiormente in difficoltà.
E’ una partita difficile che richiama scelte nette anche a livello locale, un cambio di marcia ad amministratori e dirigenti della cosa pubblica. Quando il gioco si fa duro i duri iniziano a giocare, per cui ci aspettiamo che dalle parole si passi ai fatti: per esempio sulla unione dei servizi tra i comuni, su di un diverso rapporto tra istituzioni e mondo del volontariato trasformando l’obsoleto stato sociale, fonte di costi e di sprechi, in una comunità sociale in cui determinante sia l’apporto del volontariato, infine una diversa visione della sanità pubblica, che guardi più al territorio evitando di creare cattedrali nel deserto.
Deve partire dal basso una piccola rivoluzione che dimostri che non è riducendo i confini dell’intervento pubblico che si migliorano le cose ma consolidando e rendendo più forte il rapporto tra istituzioni e comunità. Elemento, quest’ultimo, che fa diventare inevitabile una riforma della politica e dei suoi costi, diretti e indiretti.
Se questo non avverrà vuol dire che prenderanno ragione i gran sacerdoti del “laissez-faire”, “lasciate fare” che poi è lo stesso che dire ognuno si arrangi, poi però sarà inutile lamentarsi.
IL SANSEVERO
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