Mi chiedete perchè la Festa del PD a Camucia (detta anche “festa dell’umidità” visto che segna sempre il ritorno della stagione delle piogge) ogni anno riscuota un così clamoroso successo. Mi chiedete come sia possibile che, nonostante l’umidità, frotte di persone si radunino ad ascoltare un gruppo come i Camaleonti, già minore nella scena beat italiana di quasi 50 anni fa e ancorato da decenni semplicemente ai ricordi, per giunta anch’essi minori (fra cui una canzone, “L’ora dell’amore”, che poi nemmeno è la loro, visto che è la traslitterazione di Homburg dei Procol Harum).
Ma ragazzi miei, la risposta è semplice: l’ex Festa dell’Unità è l’unico evento in tutto l’anno a Camucia (visto che quest’anno è sparito pure il Cortona Sound Festival) e il “concerto” del venerdì sera è l’unico momento nazional-popolare diverso dal liscio e dalle pappatorie ad uso e consumo degli anzianotti di tutta la Valdichiana. Per questo diventa un appuntamento imperdibile: semplicemente perchè è l’unico destinato a un determinato pubblico che, numericamente, ha ancora un rilievo fortissimo. Perchè è vero che ci sono i giovanotti, ma ci sono anche tanti anzianotti.
Dopo il “Fazismo” dell’anno scorso, quando si puntò sui Cugini di Campagna, quest’anno si è quindi tornati alla più classica operazione-nostalgia dei ruggenti anni 60, anche se i Camaleonti hanno sempre ruggito poco.
In questo schema immutabile che va avanti sin da quanto Red Ronnie ha mitizzato gli anni 60 nel corso degli 80 (con memorabili trasmissioni-nostalgia in Tv) si raggruppano nella strana e incompiuta Piazza Chateau-Chinon coppie con nipoti in cerca della canzone con cui si sono innammorati (nel 90% dei casi melensa), ex rocker ingrigiti ma ancora col capello un po’ lungo e la camicia stretta. Sul loro volto scende la lacrimuccia, quando ricordano i bei tempi andati, quando leggevano Ciao 2001, la bibbia del pop italiano, quando Vandelli dell’Equipe 84 e Shel Shapiro dei Rokes giravano con le Rolls Royce (prestate dalle case discografiche per renderli fighi) e quando si pensava di poter cambiare il mondo cantando le hit dei Giganti e adattando i miti della Swingin’ London beatlesiana alle nostre realtà post-contadine.
Anche se viene la nausea a sentirne parlare ancora, 45 e più anni dopo, è stata un’epoca incredibilmente bella e positiva. La sensazione che tutto fosse possibile, che tutto poteva succedere. Diventavamo più ricchi, e recuperavamo la speranza. Tutto il contrario di oggi, dove siamo sempre più poveri e la speranza svanisce giorno dopo giorno.
Ovvio che, da provinciali, noi italiani quell’epoca l’abbiamo vissuta da provinciali. C’erano i Beatles, gli Stones, gli Who, pure in Italia c’erano artisti importanti… eppure la maggior parte dei giovani italiani cantava Pettenati e Rocky Roberts credendo di cantare la rivoluzione. Ma un po’ di rivoluzione, quantomeno di costume, c’è stata davvero.
I Camaleonti, con le loro melodie zuccherose e i testi melensi incentrati sempre e solo sull’amore (lo ammettono: “Non abbiamo mai cantato la protesta, anche se sappiamo che al mondo tante cose non vanno bene”), sguazzavano in quel clima gioioso facendo innammorare tante coppie di provincia. Lo dicono, lo rivendicano, e davvero non possiamo dirgli che non è vero.
L’Italia è stata anche questo: una versione alla buona di quanto visto in Inghilterra. C’è stato spazio anche per i Camaleonti col loro buon Tonino dalla voce acidula. E non sono neanche stati fra i peggiori.
In tutto questo il PCI con le sue feste se non è riuscito a far trionfare la bandiera rossa almeno è riuscito a far trionfare quella gialla. Quella di Pettenati, che risuona puntualmente e immutabilmente ogni anno in ogni mix di successi anni 60 eseguiti dalle varie orchestre di liscio in piazza Chateau Chinon. Suggerisco di chiamarlo per l’edizione 2013, sarebbe di sicuro un altro grande successo