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La fame, la pazzia…e la passione. Appunti sul giornalismo

Un giornalista ci invia queste sue riflessioni a margine del convegno “Giornalisti e giornalismi, libera stampa liberi tutti” che si è svolto a Firenze nei giorni scorsi. Parole e considerazioni forti, che ci chiede di lasciare anonime. Siamo però convinti che questo “grido di dolore”, ma anche “di fame e di follia” tanto per parafrasare espressioni molto popolari in questi giorni, abbia pienamente senso, sia utile anche a chi legge e possa essere condiviso da tanta parte di chi fa o tenta di fare questo mestiere oggi in Italia.

 

Due giorni sul palco per uscire dal buio. Le quarantotto ore della riscossa del giornalista precario sono iniziate venerdì (7 ottobre) al Teatro Odeon nel capoluogo toscano e si sono concluse sabato (8 ottobre) con la stesura della bozza della “Carta di Firenze”, un documento nel quale sono enunciati i diritti del giornalista per portare avanti con dignità la professione.

Dall’equo compenso allo stop sull’abusivismo, nuove responsabilità a carico di editori, direttori responsabili e del resto della piramide editoriale: diritti e doveri che trovano il loro fondamento giuridico nella Costituzione

Un’altra premessa è doverosa: il precariato del giornalista non è solo giovanile, non è figlio della crisi economica italiana ed ha raggiunto livelli così drammatici da non trovare riscontro in altri settori lavorativi. Chi sfoglia il giornale la mattina al bar, in ufficio, la sera a casa, lo sa? Chi denigra la categoria, chi la critica, chi si informa su internet, chi attraverso la televisione, è a conoscenza di quanto possa essere logorante la vita di un giornalista “precarizzato”? No.
Le 5 cose che tu lettore non sai.

1. Il tabù della condizione del giornalista. La Carta di Firenze rappresenta il primo tentativo della nostra categoria di far diventare vincolanti per i propri editori, alcuni dei diritti fondamentali come un compenso congruo al lavoro svolto. Di storie di precari ce ne sono a migliaia e tutte diverse, ma se un pezzo viene pagato dai 50 ai 2 euro netti (lordi quando va male) è colpa dell’omertà delle redazioni ma anche di noi giornalisti. Chi scrive mette una faccia oltre che una firma, e una buona apparenza è fondamentale. Inoltre la concorrenza è altissima: darsi un tono, millantare la conoscenza di fonti “importanti” diventa basilare, molto più che guardarsi allo specchio a fine giornata e fare i conti di quanto si è guadagnato senza calcolatrice, perchè tanto, si possono contabilizzare al massimo otto euro totali.
2. Dentro la notizia, fuori dalla vita. Un lavoro che prende la testa 24 ore su 24, come un Pronto soccorso di un ospedale, con i nervi in allarme per qualsiasi fatto che possa avere rilevanza o vada aggiornato, la tensione di non prendere il cosiddetto “buco”: un’informazione che gli altri hanno e tu, per svariati motivi, no. Il giornalista si alza la mattina tardi, ma dorme 5-6 ore di media, inizia a lavorare alle 10 o 11, sta in tensione tutto il pomeriggio per scovare la notizia, verificarla alla fonte, una fonte che ha il telefono occupato, staccato, non può incontrare il giornalista oppure non vuole rispondere. Per buttar giù una breve possono volerci ore di attesa snervante, il timore a prescindere di una querela, la corsa ai dettagli per battere gli altri giornali, tv o siti. Chi scrive stacca la sera ad un’ora imprecisata, ma sono sempre e almeno le nove. Cena quindi ad un’ora insolita, riserva alle ore notturne gli hobby o semplicemente le cose più banali come farsi la barba, controllare la posta, lavarsi i capelli. Idem nel weekend: quando un giornalista è pronto per cenare sono almeno le 10. Gli amici stanno già iniziando a digerire la cena, l’alcol dello Spritz è già stato metabolizzato nel sangue.
3. Schiavi per passione. I forzati del desk non hanno un contratto ma lavorano dieci ore al giorno, sette giorni su sette, come un redattore professionista, ma pagato la metà di chi lavora otto ore al giorno in un call center. Il compenso non oltrepassa i 300 euro al mese, mentre le promesse scandiscono i mesi (e gli anni) a migliaia. C’è sempre un posto per cui essere pronti se “per caso” qualcuno dovesse lasciare la redazione: una maternità, un pensionamento, una sostituzione. “Quando arriverà il tuo turno, avrai il contratto”. Il contratto diventa l’unica oasi nel deserto, impaginare e comporre articoli diventa più importante del pane, visto che mangiare il tozzo serve la farina del contratto. Intanto gli anni passano, gli stagisti si susseguono, lo “schiavo” rimane alla scrivania, senza contratto. Chi glielo fa fare? Una passione divorante per un mestiere che crea dipendenza, mentre il farsi servi del giornale aumenta le colpe del precariato: c’è sempre qualcuno disposto a diventare ancora più schiavo della redazione e a farsi pagare meno soldi pur di utilizzare l’abusivismo del desk come Cavallo di Troia per diventare un professionista e iniziare una gavetta almeno ventennale. Per un giornale che segue la politica del “basta che domani usciamo” non importa se tu sei più bravo dell’ultimo stagista: l’unica cosa che conta è che l’ultimo arrivato è disposto a lavorare per 50euro meno di te.
4. Il logoramento psicologico. Troppa l’ansia di arrivare primi, poche le soddisfazioni. Enormi le tensioni e le responsabilità. Paura per una querela, telefonate di chi il giorno dopo certe dichiarazioni, cambia versione e critica di mal interpretazione e magari ci aggiunge una cattiva fede che non c’era. Le offese, gli insulti, le accuse (spesso gratuite) sulla persona più che sul lavoro svolto, la sensazione in redazione di poter essere intercambiabili perchè fuori c’è sempre gente disposta a lavorare per la metà del compenso che percepisci tu. Sì, ma quando lo percepisci? Ogni sei mesi se va bene, una volta l’anno. Mai.
5. “Fare il giornalista è sempre meglio che lavorare”. La frase viene attribuita a Indro Montanelli, ma al di là della filosofia sarcastica di chi eredi non ha lasciato, la coscienza comune su questo mestiere va invertita. Non si scrivono articoli per hobby, non tutti sanno dare vita ai fatti con le parole, non tutti hanno i contatti da curare e ascoltare col giusto tempismo, per raccogliere informazioni e scovare una notizia. Ci vuole una certa predisposizione, preparazione, la sensibilità di saper catturare con gli occhi, le orecchie, la pelle un fatto, una dichiarazione, un accaduto. In altre parole, non si lavora ad un pezzo a tempo perso, perchè le parole pesano, messe nero su bianco ancora di più. Dietro una firma c’è una faccia che si prende la responsabilità di quello che scrive.

“Stay hungry, stay foolish”, consigliava Steve Jobs ai giovani laureati. Sarebbe stato contento di noi giornalisti precari, anche se poi si sarebbe chiesto se è più la fame o la pazzia che ci porta ad andare avanti. O qualcosa che forse è alieno a entrambe le cose.

Michele Lupetti

Colui che nel lontano 2006 ideò tutto questo. Fondatore e proprietario di ValdichianaOggi, dopo gli inizi col blog "Il Pollo della Valdichiana". Oltre a dispensare opinioni sulle cose locali è Beatlesiano da sempre (corrente-Paul Mc Cartney), coltiva strane passioni cinematografiche e musicali mescolando Hitchcock con La Corazzata Potemkin, Nadav Guedj con i Kraftwerk. I suoi veri eroi, però, sono Franco Gasparri, Tomas Milian, Maurizio Merli, Umberto Lenzi... volti di un'epoca in cui sarebbe stato decisamente più di moda: gli anni '70

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  • L'avrei potuto scrivere io. O forse l'ho scritto io, chissà. Concordo in tutto. E nel mio piccolo rimango allibito dal fatto che io sono arrivato alle stesse considerazioni solo dopo sette mesi di questo lavoro.

    Ps, aggiungo una postilla alla quinta considerazione dell'anonimo (che evidentemente è un abusivo, altrimenti non si spiegherebbe perché non si firma). Quando mi dicono che il giornalista è il lavoro di chi non vuol lavorare, io rispondo: "dato che è il sogno di tutti noi non lavorare, perché non lo fai anche tu?".

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Michele Lupetti

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