Opinioni

La deriva dell’Aquarius e della sinistra italiana

Di Pierluigi Sernaglia.

La vicenda Aquarius è solo l’ultimo dei casi in cui, con estrema chiarezza, il vuoto totale di un polo riformista si è manifestato nel nostro paese. Un vuoto che assume contorni desolanti.

Pedro Sanchez, socialista, da poco eletto capo del governo spagnolo, non si è attardato ad intervenire offrendo la disponibilità ad accogliere la nave nel porto di Valencia.

La questione dell’ Aquarius, nave che appartenente a una ONG italo-franco-tedesca SOS Méditerranée, però racconta anche altro. L’Aquarius nella deriva imposta dall’inquietante neo ministro degli interni, ci mostra i confini del prossimo ciclo politico e quali saranno le famiglie politiche che dovranno affrontarsi per determinarne lo sviluppo in un senso o nel suo esatto contrario.

La Socialdemocrazia dalla caduta del muro di Berlino fino ad oggi, sta scontando il suo periodo più buio dal punto di vista del sistema di valori, di produzione di idee, di affermazione di principi che sostanzialmente ha offuscato i fasti e la grandezza delle stagioni precedenti.

Uno studente di storia al primo anno di università non esiterebbe un momento a riscontrare un abisso tra i padri nobili del socialismo europeo e coloro che la guidarono nei favolosi anni novanta.

Olof Palme, François Mitterand, Willy Brandt, Mário Soares, Felipe Gonzales, Georgios Papandreou ognuno di questi leader ha rappresentato nel suo paese, e in Europa, una visione, una prospettiva che nessuno da quasi trent’anni ha saputo né aggiornare né reinterpretare.

Tony Blair, François Hollande, Gerhard Schröder, per citare solo i principali, verranno ricordati per essere stati quelli che più di altri hanno stravolto, degenerandola, la natura stessa di quel che significa essere socialisti. Di quello che, al netto di tutto, qualifica la condotta umana e politica dell’adesione all’ideale socialdemocratico. La loro torsione verso politiche neoliberiste, l’adesione a modelli economici e sociali neoconservatori, ha di fatto posto l’opzione socialista sullo stesso piano della proposta neo liberale o, come nel caso di Blair, addirittura su una prospettiva di sostituzione.

In Italia quel leader capace di proporre una visione socialista e socialdemocratica è stato Bettino Craxi.

Le chiacchiere dopo diciotto anni dalla scomparsa e più di un quarto di secolo dalla fine della sua carriera politica stanno a zero. L’incapacità da parte del gruppo dirigente post berlingueriano di costruire una prospettiva che aderisse definitivamente, con la fine del mondo a blocchi, ed in modo chiaro all’ideale socialista è stata grossolanamente mascherata con proposte che nel corso degli anni hanno via via perso sia un senso sia una forma definiti. La parabola iniziata alla Bolognina con il PDS e finita al Lingotto con la nascita del PD è stata una triste successione di fallimenti. Se si tralascia la parentesi di D’Alema del 1997, tutti i tentativi messi in atto per rivendicare la guida del governo messi in pratica nella cosiddetta  seconda repubblica, sono stati dei disastri. Da Occhetto a Bersani, passando per il capolavoro politico di Veltroni del 2008, non solo ci hanno mostrato l’incapacità palese di farsi percepire dall’elettorato come un’affidabile opzione di governo, ma in ognuna delle occasioni si è arrivati all’appuntamento dopo sostanziali castrazioni politiche. Tra le più vistose e maggiormente caratterizzanti dello spessore politico di quel gruppo dirigente è stata la vicenda dell’adesione  del PD al gruppo parlamentare del PSE, che non venne messa in  atto dal suo fondatore Veltroni, esponente –almeno astrattamente– della componente post comunista e, secondo logica, quella deputata a compiere quel tipo di transizione. Quell’atto, essenzialmente burocratico, si mette in pratica solo nel 2014 per mano di Matteo Renzi, espressione della matrice cattolica del partito. I tentennamenti, le oscillazioni, le inconcludenti timidezze fanno parte integrante della storia politica di tutto quello che è succeduto al PCI. Fino al congresso di Pesaro del 2001 il termine riformista è bandito dal lessico post comunista preferendo il meno impegnativo riformatore, benché ogni successo elettorale di un qualsiasi partito socialista europeo venisse sistematicamente salutato dai Democratici di Sinistra con sterminate passate di manifesti sui muri delle principali città italiane. In quegli anni il messaggio era vago e confuso: in Europa siamo socialisti ma in Italia preferiamo essere altro. Un altro che non si è mai capito cosa fosse.

Ma se non esiste una casa socialista in Italia è colpa esclusivamente dei post comunisti?

Assolutamente no.

L’intero gruppo dirigente di via del Corso 476 negli anni della “caccia al socialista”, delle monetine, dello sgretolamento nell’opinione pubblica di quella che fu una delle culture fondamentali dell’Italia del dopoguerra, il partito di Nenni, Pertini e Lombardi, di Calamandrei, il partito che permise conquiste civili come il divorzio e l’aborto, che rese l’Italia un paese laico, che costruì il sistema di garanzie per i lavoratori, che nazionalizzò l’Enel, venne lasciato dai suoi stessi dirigenti in balia degli eventi.

I suoi dirigenti si divisero, andando a cercare asilo in ogni direzione, preferendo una salvaguardia individuale ad una difesa collettiva. Chi rimase non riuscì a fare altro che resistere, adeguandosi alle contorsioni dell’assetto bipolare, fino alla seconda caduta: quella delle elezioni politiche del 2008.

Tutto ciò che è accaduto dopo attiene più alle cronache condominiali.

A Madrid Perdo Sanchez riesce a diventare capo del governo ponendo fine alla carriera politica di Rajoy perché esiste un luogo fisico ma soprattutto politico, con un’identità chiara, in cui sintetizzare e costruire strategie politiche espressione di un’ideale. Nello PSOE Sanchez riesce a ribaltare l’esito che lo portò nel 2016 alle dimissioni da segretario nazionale costruendo un’azione dal basso, dopo essersi dimesso da deputato, andando a confrontarsi con il suo popolo e chiedendone la fiducia nella candidatura alle primarie.

Elezioni primarie che nel Partito Socialista Spagnolo sono un istituto definito e regolamentato in cui chi viene chiamato a pronunciarsi rispetto alle scelte della propria comunità è colui che ne fa parte, mediante l’iscrizione al partito, e non il semplice cittadino come accade nelle primarie del Partito Democratico. Sanchez inoltre,nel riconquistare la guida del partito, e del governo, apre una fase di chiarimento anche rispetto alle divisioni interne dello PSOE, che vedono per esempio il vecchio Felipe schierarsi con un’impostazione più conservatrice e lontana dalla necessità di riportare i socialisti spagnoli su prospettive più aderenti alla loro natura che, come nel caso della sfiducia al governo Rajoy, prevedano intese con i partiti e i movimenti della sinistra spagnola.

Uno scenario sostanzialmente simile è quello verificatosi in Portogallo con l’arrivo al potere di Antonio Costa, il leader del partito socialista eletto al grido di “basta austerità”: dopo due anni di governo i socialisti portoghesi hanno aumentato i consensi evitando che a Lisbona i delusi dalla politica potessero farsi attirare dalle sirene del cosiddetto populismo, come invece avvenuto nel resto d’Europa. Il governo di minoranza, monocolore socialista, con l’appoggio esterno dei partiti di sinistra ha impostato un’azione chiaramente di sinistra revocando le ricette imposte dalla Troika e riportando anche in Portogallo la bussola dell’azione di governo verso decisioni in linea con la propria natura, come l’aumento del salario minimo da 589 a 616 euro a partire dal 1 gennaio 2016.

Ed anche il Labour, grazie alla poderosa opera di bonifica dal blairismo messa in atto da Jeremy Corbyn, è tornato ad interpretare oltremanica il suo reale ruolo politico e con messaggi chiari, come aumentare la  presenza dello Stato, più welfare, maggiori e migliori servizi pubblici, ma soprattutto negando le politiche di austerità, ha riportato il miglior risultato elettorale dal 1997, aumentando di trentadue seggi la propria rappresentanza parlamentare.

A giudicare da quello che accade è legittimo pensare perciò che la socialdemocrazia europea, dopo aver attraversato il sonno della propria ragione, che ha generato mostri, voglia riflettere su stessa e su chi è, ma soprattutto su chi dovrà essere per affrontare le sfide di un futuro nient’affatto semplice, e a cui non è più concepibile opporsi annacquando e scimmiottando ricette e proposte che non sono altro che caricature delle politiche thatcheriane  e reaganiane dei primi anni ottanta. Una concezione che negli anni di Blair e degli altri fautori della cosiddetta Terza via, altro non è stata se non un vicolo sempre più angusto, disseminato di un’insieme di misure orientate esclusivamente ad aumentare la flessibilità dei salari verso il basso, indebolire i lavoratori e i loro diritti, una strategia di impoverimento che è alla base dell’affermazione dei movimenti populisti che ha consentito il deterioramento verso il sovranismo.

Una responsabilità che ha compromesso lo spirito che era alla base della prospettiva europea, uno spirito che era rivolto a favorire l’integrazione dei popoli e degli Stati d’Europa, e non certo alla deflagrazione incontrollata delle disparità tra i popoli, tra i paesi, tra i ceti.

La visione ragionieristica affermatasi nell’ultimo decennio, con cui si è voluto declinare il processo di integrazione europea, ha mostrato quella dinamica unicamente secondo i parametri monetari, lasciando inattuato lo sviluppo sociale e più concretamente democratico dell’ordinamento sovranazionale, il quale, se avesse avuto il necessario respiro, avrebbe abbracciato l’intero continente dando all’europeismo quello sviluppo che reclamava, anziché essere rigettato dai popoli europei come nel caso del referendum inglese.

Ma quella prospettiva, quella dei diritti sociali, quella che è stata alla base dello sviluppo europeo del secondo dopoguerra doveva essere affermata e difesa dai socialisti europei, e non è un caso che il momento in cui i partiti socialdemocratici in tutto il continente hanno conosciuto la loro più grande crisi ideale e politica, una crisi di identità, coincide con il momento più buio dell’Unione Europea.

Oggi la lezione sembra essere stata compresa, e il prossimo ciclo politico europeo necessita di una nuova leva di leader capaci di rappresentare al meglio la sfida socialista. Sanchez e Costa al momento sono i primi che si candidano a farne parte insieme a Corbyn.

In Italia però l’aver voluto smantellare ogni tipo di riferimento ideologico, culturale, rifiutando  la costruzione di un soggetto palesemente socialista, preferendo un’alternativa annacquata di un nulla indefinito, ci pone in ritardo rispetto alla prossima fase, ma soprattutto ci pone su un piano di disarmato smarrimento in cui, per esempio, il confronto sulla questione migranti diventa una misurazione sul tasso di efficienza tra le politiche di Minniti e quelle di Salvini.

Il Partito Democratico fin dal suo stesso concepimento, ha mostrato limiti strutturali che ne hanno condizionato ogni tipo di evoluzione, a dieci anni dalla sua fondazione è un progetto politico finito, nato dalla suggestione di generare da quello che fu il Compromesso Storico di Moro e Berlinguer un soggetto politico che rendesse organici gli eredi della tradizione cattolico democratica e post comunista. Una suggestione che non è mai stata affrontata con un percorso di analisi storico politica di quello che fu il tentativo di avvicinamento, tra l’altro fallito, tra la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista, ma ponendosi come obiettivo essenziale quello di capitalizzarne le eredità del corpo elettorale, capitalizzazione che avrebbe dato sfogo alla famosa “vocazione maggioritaria” annunciata da Veltroni nel 2007. Una vocazione maggioritaria ormai tramontata all’indomani delle elezioni del 4 marzo 2018, lasciando le macerie di una vaghezza programmatica in cui si mettono insieme la Costituzione, la Resistenza, l’Europeismo e il Liberalismo americano, come recitano le due righe alla sezione Ideologia della pagina del PD su Wikipedia.

Non da meno sono tutti i tentativi che si staccarono dal percorso di vaghezza abbracciato dalla maggioranza uscita nel congresso di scioglimento del PCI del febbraio del 1991.

Da Rifondazione Comunista fino a Liberi e Uguali in un percorso di progressiva riduzione della propria base elettorale, tutti i soggetti che si sono messi in campo hanno sempre più rappresentato più che un’idea di società, il tentativo dei diversi gruppi dirigenti di far sopravvivere le proprie carriere parlamentari ai loro stessi errori.

Nel libro autobiografico del 2005, “Era ieri” scritto successivamente al tristemente noto editto bulgaro,  Enzo Biagi ricorda personalità importanti incontrate nella sua lunga carriera, tra queste ci fu Pietro Nenni, che il giornalista menziona per una definizione che al giorno d’oggi diventa più che mai attuale e che da sola vale più dei tentativi, tutti falliti, messi in campo dalla sinistra italiana dopo il 1989, che recita: “Il socialismo è portare avanti tutti quelli che sono nati indietro.”

Con i tratti reazionari che ha mostrato sin da subito il cosiddetto governo del cambiamento l’assenza di socialismo nel nostro paese, rischia di diventare fatale.

 

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