Mentre, debilitato dal male stagionale, mi apprestavo a seguire il posticipo fra Napoli e Juventus, una notizia mi è piombata fra capo e collo: un giornalista Rai annunciava, senza ombra di smentita, la scomparsa di una delle leggende del basket, Kobe Bryant, stella dei Los Angeles Lakers.
Non mi dilungherò, in queste poche righe, a ricordare i numeri di un giocatore che prima con la maglia numero 8 e poi con la numero 24, ha scritto la storia della squadra della California, squadra in cui ha sempre militato e, quindi, ancor di più, meritevole di essere chiamato Leggenda.
L’aprile 2016 sono stati l’ultimo mese e l’ ultimo anno in cui Kobe Bryant ha calcato il palcoscenico del grande basket con una prestazione sontuosa nel suo ultimo match, in un periodo in cui i Lakers navigavano nelle acque melmose del fondo classifica, in cui mise a referto 60 punti, ma i numeri, adesso, si fermano qui perché, da ieri sera, c’ è spazio solo per la pelle d’ oca e per i volti rigati dalle lacrime, per i ricordi e per l’ incredulità.
Kobe come il Grande Torino, la Chapecoense ed Emiliano Sala che proprio poco più di un anno addietro ci lasciava con un aereo che avrebbe dovuto portarlo ad una nuova carriera e che invece lo portò in fondo al mare e chissà se Nala lo sta ancora aspettando. Kobe Bryant, come tutti i grandi campioni, è stato amato ed odiato, ma sempre rispettato qualsiasi palcoscenico abbia calcato ed è da ieri che si susseguono messaggi di sconcerto e disperazione.
Le prime due azioni di San Antonio Spurs –Toronto Raptors, match giocato nella serata di ieri, non sono state portate a termine con i giocatori che hanno fatto scadere i ventiquattro secondi canonici che spettano a ciascuna squadra per terminare l’ azione, con il pubblico che ha applaudito a scena aperta. Kobe ha avuto anche uno strettissimo legame con l’Italia, dove ha vissuto dai 6 ai 13 anni, in quanto è stato figlio del leggendario Joe Bryant che giocò a Rieti, Reggio Calabria, Pistoia per finire con Reggio Emilia, imparando anche un perfetto italiano e chiamando poi le sue figlie con quattro nomi italiani.
Aveva la grande passione degli elicotteri con cui si recava agli allenamenti ed alle partite per evitare l’ impossibile traffico di Los Angeles e proprio l’ elicottero, alle 9.47 ora della California, è stato il suo capolinea in una giornata di fitta nebbia come quella in cui perse la vita il Grande Torino il cui aereo si schiantò sulle colline di Superga, aereo che segnò la fine anche della squadra brasiliana della Chapecoense.
Quattro storie diverse ed uguali allo stesso tempo, quattro leggende l’ ultima delle quali, adesso, vogliamo tutti credere che stia realizzando un’ultima poderosa schiacciata.
Stefano Steve Bertini
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