Caro Lupetti,
Apprezzo molto il suo sforzo di riportare la discussione sui consorzi di bonifica all’interno di un serio dibattito sulle politiche di difesa del suolo. Naturalmente non concordo sulla necessità di abolire i consorzi, ma fa piacere che ci sia qualcuno che si sforza di ragionare su cosa si debba e possa fare per rendere più sicuro il territorio toscano.
Butto lì qualche spunto di riflessione, partendo dai problemi che abbiamo di fronte.
Il nostro territorio è sempre più fragile, per le mutazioni climatiche, ma soprattutto per lo stress a cui è sottoposto. La pervasività dell’urbanizzazione ha fatto sì che i movimenti naturali (esondazioni, erosioni, frane) debbano essere contenuti in maniera artificiale per non compromettere gli assetti creati, spesso in maniera scriteriata, dall’uomo.
Nei secoli questo sforzo si è concretizzato con una miriade di opere, alcune imponenti, come la realizzazione del Canale Maestro della Chiana, altre modestissime, ma fondamentali come le migliaia di piccole briglie, soglie, muretti lungo i torrenti di collina. Con l’abbandono delle campagne avvenuto nel secolo scorso, non solo si sono lasciate andare in malora queste opere, ma se n’è persa la memoria e ci si è dimenticati di quanto sia delicata l’interazione tra dinamiche naturali e attività umane. Questa perdita di coscienza ha portato (le istituzioni a decidere e i cittadini ad accettare) ogni tipo di assurdità come la costruzione di quartieri e città in aree golenali, il tombamento di interi fiumi, l’assenza di ogni tipo di manutenzione.
Dal 1994 la Regione ha deciso di affrontare il problema anche con lo strumento della bonifica. Con una lettura originale e innovativa delle leggi statali, ha dichiarato territorio di bonifica l’intera regione, creando 41 comprensori e affidandoli a 13 consorzi e a 13 comunità montane. I consorzi di bonifica, fino a quel momento confinati a aree molto ristrette, si sono trovati a dover gestire metà regione e le comunità montane hanno dovuto attrezzarsi per svolgere un nuovo compito nell’altra metà. Va detto che dappertutto ci siamo trovati di fronte a territori “vergini”, zone abbandonate da decenni dove è stata dura persino ritrovare i corsi d’acqua.
Come da legge dello stato, i consorzi fanno la manutenzione ordinaria delle opere idrauliche e di bonifica, finanziandosi con il tributo di bonifica, imposto ai proprietari di immobili che ottengono un beneficio da tali lavori.
Gli elementi che la Regione ha trovato sul tavolo al momento della riforma dell’anno scorso sono questi:
– un territorio con enormi problemi, bisognoso di una manutenzione costante e puntuali;
– risorse pubbliche inesistenti;
un sistema di competenze farraginoso con – una pletora di attori (Comuni, Province, Geni Civili, Regione, Consorzi e Comunità Montane);
È abbastanza evidente per chi non è abbacinato dal chiacchiericcio sull'”odioso balzello” che i consorzi di bonifica sono la risposta più efficiente a queste domande.
I consorzi sono enti operativi, con l’unica missione di gestire i corsi d’acqua; sono strutturati e attrezzati per far questo e solo questo e quindi hanno tecnici e personale operativo specificamente formato. Il tributo di bonifica è probabilmente l’imposta più trasparente e controllabile che c’è in Italia: chi è in grado di dire dove e come viene spesa la propria IRPEF? Quali iniziative finanzia l’IMU? L’IVA dov’è che va? Il tributo di bonifica, al contrario, ha confini territoriali e funzionali assolutamente definiti. In una società matura, questo dovrebbe essere visto come un grande valore: pago e sono in grado di controllare dove sono andati i miei soldi e con quale grado di efficienza sono stati spesi.
Con la riforma, la Regione ha semplificato molto il quadro, togliendo molte funzioni alle Province e ai Comuni e lasciando unicamente ai consorzi l’operatività sui corsi d’acqua. È appena il caso di notare che se la Regione ha deciso di valorizzare i consorzi il motivo è perché questi enti hanno dimostrato sul campo di essere il soggetto più efficiente. È in ogni modo evidente che se si vuole semplificare e ridurre la frammentazione di competenze, si deve abbandonare la logica del livello amministrativo. Che senso ha gestire corsi d’acqua e versanti sulla base di confini politici? Come si fa ad invocare la gestione dei Comuni senza pensare che questi dovrebbero mettere in piedi meccanismi di gestione associata dove i bisticci tra assessori e uffici tecnici sarebbero all’ordine del giorno?
Piuttosto, semplifichiamo ancora! Non è possibile che un consorzio debba fare una DIA in Comune per riparare un muretto!!!
Diamo infine uno sguardo fuori Toscana. La nostra Regione è arrivata ultima nel riformare la bonifica. Prima di noi, l’hanno fatto il Veneto, l’Emilia, la Puglia, la Lombardia (per citare solo le regioni più grandi). In tutti i casi, i consorzi sono stati ridotti di numero, ma accresciuti nel ruolo e nelle funzioni e ovunque si è riconosciuta l’importanza di avere un soggetto che opera sul territorio, governato dal territorio stesso (nel resto d’Italia la presenza degli enti pubblici nei consorzi è pressoché simbolica) e fortemente voluto dai soggetti economici, come gli agricoltori, che il territorio lo vivono e lo lavorano.
I Consorzi di bonifica da soli non sono la soluzione; servono istituzioni in grado di pianificare in maniera sostenibile e risorse pubbliche per nuove opere e interventi straordinari. Senza tutti questi elementi non ci potrà mai essere sicurezza idraulica e, di certo non è con la propaganda che potremo migliorare la situazione.