Vaglielo a spiegare che i Rom in Italia arrivarono nel 1400, e che dei circa 120.000 presenti in Italia almeno 70.000 hanno cittadinanza italiana (fonte: Opera Nomadi), senza contare che la stessa definizione di “nomadi”, venuta meno la propensione degli stessi a muoversi, è stata più volte definita sbagliata dalla Commissione Europea contro il razzismo e l’intolleranza nei suoi rapporti sull’Italia.
Un falso assunto, quello del nomadismo, che è alla base della realizzazione e l’allestimento dei famigerati campi di accoglienza strutturati per far fronte ad una presupposta presenza temporanea che, di fatto, vista la mutazione sociale di tali gruppi etnici -sostanzialmente non esistono più i mestieri di giostrai, venditori di cavalli, arrotini, circensi- ha lasciato il passo ad una necessità di stanziamento permanente.
Una necessità di entrare stabilmente nelle comunità cittadine che le amministrazioni locali di fatto non prendono nemmeno in considerazione attuando politiche di segregazione che favoriscono l’occultamento e la proliferazione di elementi pericolosi, che agevolati dalla scarsa visibilità si dedicano ad attività criminali alimentando giudizi negativi su tutti coloro che vivono nei campi. Un sentimento di peloso razzismo che mette radici nell’opinione pubblica e colpisce tutti, anche quelli che chiedono invece di poter avere servizi scolastici e sociali che invece favorirebbero l’integrazione.
Rom che monopolizzano l’intero concetto di migrante, un paradosso visto che più della metà sono italiani.
Ma poco importa andare al fondo delle questioni in un mondo in cui la profondità di analisi è quella di un tweet, nell’elaborazione del giudizio negativo ormai impresso a fuoco sui Rom ci finiscono dentro tutti i migranti: i siriani che scappano da una guerra, gli abitanti nella regione del Magreb ancora euforici delle primavere arabe caldeggiate da Sarkò e Cameron -entrambi vaporizzati dalla scena politica-.
Nell’estate che vede porre i fondamenti dei temi che caratterizzeranno la prossima campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento italiano la questione “migranti” divora tutto, schiaccia tutti i temi che invece dovrebbero avere più attenzione.
L’inconsistenza delle politiche sul lavoro anglicizzate col nome di Jobs Act, concretizzatesi in un profluvio di fondi pubblici che non hanno aumentato la forza lavoro ma hanno unicamente alterato il sistema di conteggio degli occupati e fatto cadere l’ultima fragile difesa rappresentata dall’articolo 18 della legge n. 300/70, legge che aveva un nome più degno: “Statuto dei Lavoratori”.
Una politica dei redditi assolutamente nulla che non ha saputo rimediare ai danni creati dal blocco della contrattazione collettiva per i lavoratori del pubblico impiego -ed applicato anche a molti altri comparti- inserito da vari governi in decreti per il risanamento dei conti pubblici a partire dal 2009 e confermato poi per il 2014 dal Governo Monti.
Una misura dichiarata incostituzionale dalla Suprema Corte con le ordinanze R.O. n. 76/2014 e R.O. n. 125/2014.
Una retorica, quella della spending review, demolita anche dalla Corte dei Conti che ha analizzato la situazione dei debiti fuori bilancio contratti dai ministeri riscontrando una variazione dai 930 mln del 2012 ad oltre i 2 mld del 2016.
Senza contare il dibattito pressoché nullo riguardo alle misure decise sia a livello europeo che a livello nazionale per far fronte alla crisi bancaria. Misure che, a parte aprire il rubinetto del salvataggio con denari pubblici, poco altro hanno determinato.
Per sei mesi il dibattito è stato monopolizzato dall’esito del referendum costituzionale del 4 dicembre.
L’esigenza da parte dell’ex premier di tornare a Palazzo Chigi, ormai chiaramente ascrivibile alla categoria dell’ossessione psicotica, ha assoggettato ogni tipo di confronto, di dibattito.
Una situazione figlia delle scelte messe in campo dal presidente emerito Giorgio Napolitano, che in modo del tutto personale, ha cercato di risolvere l’impasse che da ormai un quarto di secolo attanaglia la Nazione.
L’allora Presidente della Repubblica partendo dal siluramento di Berlusconi nel 2011, cercò dapprima con la nomina di Monti, e successivamente con l’avvio della stagione delle riforme di superare due elementi che di fatto bloccano il sistema politico italiano: la mancanza di una classe dirigente che sappia affrontare la guida del paese (mancanza che di fatto sussiste dal 1992) e la necessità di avere un sistema di governo in linea con quelle che sono oggi le esigenze degli esecutivi nazionali in Europa.
Un’intenzione anche meritoria, ma sia le modalità scelte che gli attori in campo non hanno fatto altro che complicare ancor di più la situazione gonfiando il consenso del Movimento Cinque Stelle e permettendo il ritorno sulla scena politica di Silvio Berlusconi, come hanno sancito in modo abbastanza inequivocabile le ultime elezioni amministrative.
Uno spostamento a destra dell’asse che non è solo italiano, ma che si è manifestato in Europa e negli stessi Stati Uniti.
Uno spostamento che ha delle ragioni soprattuto nella friabilità dei gruppi dirigenti socialisti e socialdemocratici europei e progressisti occidentali, capaci di rimanere inermi e capaci solo di rivolgere lo sguardo alle strategie politiche che negli anni novanta li vedevano al governo quasi ovunque.
Strategie, quelle clintoniane e blairiane, che hanno preparato la situazione attuale, si rifletta per esempio su quanto accaduto nel sistema bancario mondiale, si rileggano oggi provvedimenti come l’abolizione negli USA del Glass-Steagall Act del 1999 che ha permesso alle banche che raccolgono il risparmio di impiegarlo in operazioni speculative.
Se la risposta alla situazione contingente, per quanto riguarda l’Italia, è radunarsi a piazza Santi Apostoli -allora sede dell’Ulivo, oggi sede di una società d’affari- in un clima da ex compagni di liceo, dimenticando che buona parte dei partecipanti fu tra coloro che non si oppose alla deriva veltroniana avviata con la fondazione del PD al Lingotto di Torino, c’è poco da sperare.
Speranza che non viene alimentata nemmeno dall’ala più dura di parte di quel mare magnum che è la sinistra italiana -o che almeno un tempo lo era- visto che anch’essa sembra rimanere incastrata sulla battaglia del 4 dicembre, una battaglia sacrosanta e vinta, ma che rischia oggi nelle dimensioni del risultato di non far percepire che la difesa delle carte costituzionali passa per l’elaborazione di una proposta politica più ampia del semplice contrapporsi ad un leader divorato dalle sue ambizioni.
Necessita di prendere atto che l’evoluzione dell’Unione Europea soprattuto nella sua dimensione di organo di governo ha già di fatto superato le carte costituzionali, entrando -in modo inutile e dannoso per lo più- nelle legislazioni nazionali scavalcando la dimensione partecipativa e democratica. Una dimensione, quella europea, che come descrive Tremonti in Mundus Furiosus “ha simmetricamente sottratto sovranità agli Stati e sottratto democrazia ai cittadini e ai popoli”, annientando di fatto quella che era stata l’elaborazione di pensiero operata dai padri costituenti in fase di redazione delle Carte Costituzionali nel dopoguerra.
Una impostazione a cui JP Morgan nel documento “The Euro area adjustement: about halfway there” del 28 maggio 2013, mostrò tutta la sua ostilità definendole “inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’area europea” poiché “mostrano una forte influenza delle idee socialiste”
La sinistra, che deve tornare a chiamarsi Socialista, deve essere capace di mettere in atto un’iniziativa che sappia contrastare la vittoria della destra descritta chiaramente da Marcel Gauchet nel saggio “Destra e Sinistra in ridefinizione” pubblicato nel numero 1/2017 di Micromega.
Una vittoria che è iniziata col “crollo del progetto riformatore della sinistra” e che ha visto le nostre società pian piano farsi guidare da idee e da credenze come “l’efficenza dell’impresa privata, la fede nell’iniziativa individuale, la superiorità della regolamentazione del mercato, le virtù del libero scambio”, una affermazione identitaria valoriale che permette ad una destra ideologica di presentarsi “per come è, senza complessi”.
Senza questo presa di coscienza, la sinistra politica, comprensiva anche del movimento sindacale da anni addormentato su se stesso, sarà continuamente alterata da soggetti che, patologicamente condizionati dalle proprie ambizioni, andranno appresso alle pulsioni più torbide dell’elettorato, cavalcando questa o quella tendenza con lo stesso spirito di come si sceglie di partecipare ad un trend topic.
“I Rom non li sopporto più, basta! Perché non tornano a casa loro?“
…
e sì signora mia ha ragione, bisognerebbe “aiutarli a casa loro“.
Arturo Bandini