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Un’indimenticabile serata “horror” fra la Fortezza e il Poggio di Cortona, anno 1972…

“E’ stato un abbaglio, una mia impressione.. Non potrebbe esser altro…” mi ero appena detta e, proprio in quel momento, una staffetta, giungendo di corsa sul palcoscenico, aveva cominciato a gridare:

Mio grazioso signore, dovrei dirti di qualcosa che giuro d’aver visto, ma non so come dirlo”… “Mentr’ero di vedetta in cima al colle ho rivolto lo sguardo verso Birnam e m’è parso, d’un tratto, che si muovesse l’intera foresta”… “S’abbatta su di me la vostra collera, se non è vero: a tre miglia da qui, lo potrete vedere da voi stesso. Ho detto: una foresta che si muove..”.

“Che strana coincidenza” avevo pensato “che sensazione bizzarra.. solo un’effetto ottico però… senz’altro..” mi ripetevo continuando a scrutare nel buio per aver la conferma che dovevo per forza essermi sbagliata.

Una certa inquietudine, però, aveva cominciato ad insinuarsi in me costringendomi a trepidare per una cosa che sapevo essere, senza ombra di dubbio, assurda: anche io, come la staffetta di Macbeth, il regicida e sanguinario Macbeth shakespearino, nell’oscurità che la luce delle stelle riusciva ad illuminare appena, credevo di aver visto, e mi sembrava di vedere ancora, alcuni cespugli muoversi dal fondo e dai lati del piazzale e, a poco a poco, farsi sempre più vicini.

Una cosa folle, lo sapevo benissimo, ma che, insistendo ad osservare quell’oscurità, ad ogni istante mi sembrava sempre più reale.

Evidentemente il trovarmi in quella notte estiva seduta al centro di uno spazio aperto posto tra le mura di una rocca così antica, un luogo dove il silenzio proveniente dalla valle sottostante ed il buio quasi totale avevano il potere di cancellare qualsiasi ricordo del vivere nella contemporaneità e lì assistere ad una pièce teatrale talmente fosca da esser considerata addirittura di malaugurio nell’ambiente artistico anglosassone, aveva prodotto la sua fascinazione e, incredibile a dirsi, per una volta tanto, era riuscita a far breccia sulla mia odiosa razionalità, quella che mi impedisce sempre di immedesimarmi completamente nelle storie che leggo o negli spettacoli a cui assisto.

Forse per questo mi sentivo agitare da una sorta di ansia, uno stato d’ animo insensato e sgradevole di cui non riuscivo a liberarmi.

Era la stessa apprensione che, lo si sentiva a pelle, turbava tutto il pubblico che insieme a me, a Cortona, nel cortile interno della Fortezza del Girifalco, quella sera assisteva alla rappresentazione di un dramma che definire macabro era dir poco: il “Macbeth”.

Sangue, ferocia, terrore, soprannaturale e stregoneria funesta, ecco ciò che in tutto il mondo, da Shakespeare in poi, significa Macbeth.

Le disastrose conseguenze dell’ambizione smodata e dell’insaziabile sete di potere, la cruda malvagità e la più bieca spietatezza, le orride passioni che avevano mosso il truce Macbeth e la perfida Lady Macbeth, sua consorte, a dare inizio alla catena di spietati omicidi che gli aveva consentito di usurpare il trono di Duncan, il legittimo re di Scozia, prima, e di conservare il potere poi: era questo ciò che si stava rappresentando quella sera in quel piazzale buio della Fortezza Medicea.

La partecipazione emotiva del pubblico era inevitabile. Ed era intensa.

L’ atmosfera era carica di una tensione angosciosa da cui io, troppo fiduciosa nella mia abituale imperturbabilità, credevo di esser rimasta immune.

Pensavo infatti che niente di quanto era avvenuto in scena fino a quel momento fosse riuscito a coinvolgermi tanto da farmi dimenticare che stavo assistendo ad una finzione scenica: né le ipnotiche tiritere dalle streghe che avevano tragicamente spinto Macbeth a cedere alla propria ambizione e divenire uno spietato assassino, né le apparizioni degli spiriti e le loro ambigue profezie, e nemmeno il pugnale insanguinato o il fantasma di Banquo, le spaventose allucinazioni che tormentavano la coscienza lorda di sangue del tiranno.

Né, mi sembrava, di esser stata messa a disagio dalle tenebre che, avvolgendo quasi totalmente l’ambiente circostante ed il palcoscenico, obbligavano gli occhi miei e quelli di tutti gli altri spettatori a posarsi lì dove l’unica luce si concentrava: sui volti truci dei due protagonisti intenti ad ordire o a commettere i loro efferati omicidi, o sulle loro facce stravolte dal terrore e dai sensi di colpa che torturavano la loro psiche.

Né, credevo, di esser stata minimamente turbata dalle ombre immense che, nel buio della notte, vedevo muoversi alle spalle di coloro che si alternavano sul palcoscenico: benché un po’ inquietanti, non erano altro, me ne rendevo conto, che le ombre degli attori che i riflettori di scena proiettavano, ingigantendole, sulle alte mura della rocca cortonese.

Ero anche convinta di esser sfuggita indenne dal plagio di quel macabro incantesimo persino dopo aver alzato gli occhi più su dove quelle mura apparivano altissime e, figurandomele identiche a quelle del medioevale castello di Dunsinane, la residenza degli spietati coniugi, avevo avuto l’impressione di scorgere la sagoma scura di Lady Macbeth, – sonnambula per i rimorsi e in preda al delirio che la spingeva a tentare di lavar via dalle mani il sangue indelebile degli esseri umani caduti vittima della sua cupidigia-, aggirarsi pericolosamente proprio lassù e proprio da lassù, chissà se per scelta o per disgrazia, d’un tratto, cadere giù.

Pensavo, mi sembrava, credevo ma… mi sbagliavo.

La mia proverbiale imperturbabilità aveva subito un duro colpo e, anche se non volevo ammetterlo la “suspense collettiva” che quella notte rendeva elettrica la cupa atmosfera della Fortezza del Girifalco aveva, incredibilmente, contagiato anche me.

Dovetti arrendermi all’evidenza non appena mi resi conto di quanto fosse stato profondo il sospiro di sollievo che avevo tirato nell’udire lo spietato Machbeth maledire le ingannevoli profezie che lo avevano indotto alle più truci azioni e ai più efferati omicidi.

Ne fui ancor più certa allorché, immediatamente dopo, percepii quanto fosse intensa la mia soddisfazione nel sentirlo finalmente gridare in preda al terrore: “Sento venirmi meno la fiducia, e mi s’affaccia il dubbio sull’equivoco profetar del diavolo che ti mentisce facendoti credere di dirti il vero: “Non devi temere fintanto che non vedrai avanzare la foresta di Birnam verso Dunsinane…” Ed ora una foresta si muove veramente verso Dunsinane!” … “…Suonate la campana dell’allarme! Venti, soffiate! Venga la catastrofe! Potremo almeno dire di morire con tutto indosso l’armamento nostro!”.

Ecco, pensai quando infine tornai presente a me stessa, questo deve essere il famoso “pathos”, la capacità ipnotica che ha il Teatro, almeno quello con la T maiuscola, di trascinare lo spettatore in quella magica suggestione grazie alla quale tutto diventa credibile e condivisibile, lo stato d’animo di cui parlava con tanta enfasi il mio professore di greco quando cercava, peraltro inutilmente, di far apprezzare a noi studenti il potere catartico della “tragedia”.

Ho provato più volte, col senno di poi, a minimizzare l’inusuale “transfert” psicologico in cui ero caduta dicendomi che se mi fossi curata di colmare anche solo un po’ i miei vuoti culturali almeno in fatto di teatro shakespeariano e avessi così conosciuto in anticipo la trama di quella che era e sarà una delle più grandi e rappresentate opere del tragediografo inglese, non sarei di certo caduta nell’inganno.

Ma ogni volta, nel ricordare lo smarrimento che ancora si leggeva nelle facce degli spettatori al momento in cui, avendo la tragedia raggiunto il suo epilogo, tutte le luci del piazzale si erano accese e si era così interrotta la malìa che li aveva fin lì stregato tutti gli astanti, ho dovuto riconoscere che no, in nessun modo avrei potuto seguire quella lugubre vicenda teatrale e mantenere un lucido distacco perché nessuno, in quel contesto, sarebbe riuscito a sfuggire al magnetismo della situazione: tutto in quella edizione del Macbeth portato in scena dal Teatro Stabile di Torino concorreva a fare di quella rappresentazione uno spettacolo estremamente coinvolgente.

E come a nulla era servito essere perfettamente consapevole che apparizioni di pugnali insanguinati, streghe, fantasmi, profezie esistono solo nei racconti dell’orrore, così a nulla sarebbe valso sapere in anticipo che quelli che muovendosi nel buio erano apparsi alla mente ottenebrata di Macbeth gli alberi della foresta di Birnam che avanzando verso il castello di Dunsinane portavano a compimento una delle tre profezie orrifiche che malvagiamente lo avevano confermato nell’illusione di essere invincibile, erano invece, nella finzione teatrale, solo dei rami di albero tagliati dietro i quali si nascondevano, per mimetizzarsi, i soldati dell’esercito di Malcom, il figlio di Duncan, venuto, insieme a Macduff, a liberare la Scozia dall’odioso tiranno e che erano quindi, e molto più semplicemente, gli attori che impersonavano i soldati degli eserciti del legittimo successore al trono coloro che, nascosti dietro finti cespugli, si muovevano nel buio verso il palcoscenico, nella realtà da cui io mi ero inconsapevolmente estraniata.

Era l’estate dell’anno 1972, una delle prime, gradevolissime, notti d’agosto.

Non avrei mai scelto, se fosse dipeso da me, di rinunciare a una serata da trascorrere finalmente senza ansie nella terrazza “cinemascope” del ristorante “Tonino”, ritrovo abituale dei giovani “scioperati” ambisex cortonesi, luogo panoramicamente aperto sulla Valdichiana e freschissimo in cui il “juke box”, incessantemente impegnato ad esibirsi nelle ultime “hits” canore, creava in noi frequentatori disperatamente squattrinati l’illusione di trovarci in un vivacissimo luogo di vacanza. Non lo avrei mai scelto, non perlomeno a così pochi giorni di distanza da quell’ afosissimo 29 Luglio in cui, alle 14,30, digiuna, sola in quanto ultima candidata ad essere esaminata, e per di più spiacevolmente in trasferta nella sede nemica del Liceo Classico di Arezzo, avevo dovuto sostenere il faticosissimo “esame degli esami”, quello di maturità.

Ma non era venuta a me un’idea del genere, era venuta invece ad un mio carissimo compagno di classe, il più intelligente ed impegnato, nonché gradevole di aspetto, interessante e divertente, che, tra tante liceali che avrebbero fatto carte false per passare una serata in sua compagnia, aveva ritenuto giusto invitare me, l’amica che sapeva non aver mire sentimentali su di lui e che riteneva, ma non sapeva quanto ingiustamente, in grado di condividere volentieri, perfino apprezzandola, una serata che di “vacanziero” non avrebbe avuto assolutamente nulla.

Avrei potuto deludere una stima così gratificante anche se mal riposta? Non me la sentivo e, anche se molto a malincuore, accettai rassegnata a “sciropparmi” una serata che immaginavo sarebbe stata insopportabilmente soporifera.

Quella notte estiva si rivelò, invece, una delle occasioni più “adrenaliniche” della mia gioventù.

Merito, non c’è dubbio, del grande Shakespeare e del suo dramma ambientato in un castello medievale posto in cima ad una collina, la Dunsinane Hill, dalla quale, come dal colle cortonese, si potevano avvistare dall’alto gli eserciti nemici arrivare da lontano e seguire con trepidazione, o disperazione, le sorti delle battaglie che si svolgevano ai suoi piedi.

Merito, non si poteva certo negarlo, dell’interpretazione di due degli attori più di valore del teatro italiano di quel periodo, il grande Glauco Mauri, un crudelissimo Macbeth, e la magistrale Valeria Moriconi, la perfida Lady Macbeth, nonché di tutti gli altri interpreti, anche questi nomi di gran spicco nel panorama teatrale dell’epoca e altrettanto eccellenti nelle loro interpretazioni, che grazie alla direzione di Franco Enriquez un regista tra i più competenti e capaci di quegli anni avevano reso memorabile, pubblico e la critica erano perfettamente concordi, questo allestimento della tragedia schekspeariana.

Ma se in quella notte poco stellata lassù in quel piazzale interno all’antica rocca cortonese, il coinvolgimento emotivo del pubblico tutto era stato così profondo e l’ atmosfera era stata talmente carica di suspense che al solo ricordo sento ancora corrermi brividi lungo la schiena, posso garantirvi che in tutto ciò la Fortezza Medicea aveva avuto la sua parte.

Una grandissima parte. In nessun altro luogo lo stesso spettacolo sarebbe riuscito a raggiungere un effetto altrettanto “horror”.

Nessun altra “ location” avrebbe, inoltre, potuto offrire un ulteriore supplemento di panico da cardiopalma come quello di cui beneficiarono coloro che, finito lo spettacolo, inconsapevoli delle emozioni da “thriller” che li aspettavano, optarono per il rientro in città a piedi o perché invitati dal gradevole clima estivo a quella che credevano una rilassante camminata in notturna o perché, come me ed il mio coetaneo, obbligati a ciò dalla mancanza di un autonomo mezzo di locomozione.

Solo chi abbia provato almeno una volta a scendere a piedi dal Piazzale di Santa Margherita a Cortona quando è ormai buio scegliendo, come facemmo noi e chissà perché, tra le due strade possibili proprio l’impervia quanto scoscesa Via S.Croce, forse riesce ad immaginare quanto possa esser stata fonte di ansia (termine ipocrita che scelgo per non ammettere che di vera e propria “fifa” si trattò), una tale “passeggiata” rischiarata solo e soltanto dalla luce delle poche stelle attive in quella notte, percorso travagliato che obbligava poi ad avventurarsi lungo le viuzze del “Poggio” dove tutto, la chiesetta di S. Cristoforo, quella di San Niccolo’, le piccole case medievali tutte intorno ad esse, i poderosi ed austeri conventi, proprio tutto insomma, all’epoca era illuminato solo da fioche e rare lampadine poste qua e là. Molte meno e molto più pallide di quelle che oggi vedono brillare gli abitanti del rione del “Popolo Santo”

Come, in un ambientazione del genere e dopo aver assistito ad una rappresentazione teatrale tanto tenebrosa, non aspettarsi di veder all’improvviso spuntar fuori sicari nascosti nell’ombra o materializzarsi megère sghignazzanti, spettri desiderosi di vendetta, pugnali insanguinati ecc..ecc..ecc..?

Realizzai poi, negli anni, che non era poi così strano che il luogo che io avevo vissuto come un suggestivo scenario teatrale avesse rivelato tali straordinari poteri seduttivi.

Non era quello, già dal suo ancestrale passato, un luogo che potremmo definire “magico” visto e considerato che, molto probabilmente, fu proprio da lassù che ancor prima che esistesse la città etrusca, all’alba di un giorno chissà quanto lontano nei secoli, un augure etrusco, volgendosi verso est e tracciando segni immaginari nel cielo, stabilì quale sarebbero stata la posizione di essa e fin dove si sarebbero estesi i suoi confini?

E non era da quello stesso luogo che, sempre molto probabilmente, gli aruspici osservavano il volo degli uccelli, la provenienza delle folgori e tutti gli altri segni divini per trarre da questi i loro responsi?

Non era qui, poi, che si offrivano sacrifici per ottenere il favore degli dei?

Un’ “arce” che dopo aver perso, chissà quando, la sua vocazione di spazio sacro, in tempi successivi che non sappiamo collocare esattamente nel tempo, era divenuto un luogo difensivo in cui una costruzione fortificata fungeva da baluardo alla sicurezza della città.

Una rocca sentita dai cittadini della Cortona Libero Comune come il simbolo della propria autonomia e della propria potenza ma divenuta l’emblema della loro oppressione una volta che, assoggettata Cortona alla Repubblica Fiorentina, prima, ed alla famiglia Medici poi, questa fortezza era divenuta non solo un mezzo grazie al quale i governanti difendevano i confini del loro Stato dai nemici esterni, ma anche, all’occorrenza, un valida postazione da cui tenere sotto controllo e, se del caso, reprimere gli eventuali tentativi di dissidenza interni al territorio cortonese.

Uno strumento di oppressione, insomma.

Corrispondevano a verità le immagini o le descrizioni che di questa costruzione ci sono pervenute?Era dotata di una torre altissima come appare su in alto nello sfondo della predella dell’Annunciazione del Beato Angelico?

Era veritiera la descrizione lasciataci dallo storico Baldelli a metà del 1500 per il quale la medesima torre “fu bellissima, altissima e aveva la più bella e superba torre o maschio che fosse nello Stato di Firenze” torre che, sempre secondo il Baldelli “fu fatta cadere ai tempi nostri mentre si rifondevano le mura nuove di essa fortezza per fortificarla”?

Era poi realistico il disegno che di essa fece il Braccioli nella seconda metà del ‘500, immagine in cui la vediamo bassa e tozza perché sicuramente già stata abbattuta in gran parte? Non possiamo esserne certi.

Sappiamo però che una volta che Cortona ebbe persa la propria indipendenza il mantenere questa rocca opportunamente fortificata, costantemente sicura, dotata di militari, mercenari, armi, munizioni e vettovaglie, era divenuto un onere economico insopportabile per i cortonesi, per quelli di città e ancor più per quelli di campagna, che a quel preciso scopo venivano sottoposti sempre più spesso all’obbligo del pagamento di esose tasse e odiosi balzelli da parte del governo fiorentino, un potere sentito inevitabilmente come “straniero” e alle cui imposizioni talvolta tentavano di ribellarsi.

Questo costosissimo insieme di uomini e mezzi veniva infatti impiegato per controllare un territorio che per “gli occupanti” rivestiva un ruolo altamente strategico, un ambito territoriale molto grande che, estendendosi a dismisura sia nella montagna che nella valle, faceva sì che delle 11 città poste ai suoi confini, ben 9 di esse (Tuoro sul Trasimeno, Castiglione del Lago, Lisciano Niccone, Città di Castello, Umbertide – Montepulciano, Sinalunga, Torrita di Siena) ricadessero entro i limiti territoriali di altre due potenze dell’epoca, lo Stato della Chiesa e la Repubblica di Siena, le cui mire espansionistiche nelle nostre terre entravano molto spesso in conflitto con quelle della città gigliata che, da parte sua, altrettante ne aveva nei loro confronti.

L’ingente impegno economico a cui la cittadinanza doveva far fronte assolveva principalmente il compito di mantenere efficiente quello che per i capitani fiorentini era un posto di osservazione essenziale per tenere costantemente sotto controllo non solo la valle, i punti fortificati del Trasimeno, il borgo dell’Ossaia, il ponte di Valiano ma, grazie ai suoi bastioni esposti a nordest e a nordovest, anche la montagna.

Il pericolo poteva infatti sopraggiungere da uno qualunque dei punti del territorio cortonese che in quei tempi era percorso, in continuazione e in ogni sua parte, da eserciti stranieri, truppe imperiali o di altre città talvolta anche molto lontane, che si spostavano per raggiungere i luoghi di battaglia o che si trattenevano “allo sciverno” in queste zone, e che, facendo ciò, approfittavano per depredare, razziare, distruggere i raccolti, cosa che, oltre ad impoverirne le popolazioni, precludeva a Firenze la possibilità di attingere a quelle scorte di grano o altri prodotti agricoli che erano il motivo per cui la Valdichiana e le nostre montagne erano indispensabili all’economia fiorentina.

Si trattava insomma di spese immense da sostenere molto più nell’interesse del potere a cui il territorio era assoggettato che per quello della comunità che qui aveva vissuto da sempre, popolazione per la quale la Fortezza era diventata il triste simbolo della perduta indipendenza e dell’asservimento allo straniero.

Terminata questa sua funzione difensiva e andata in rovina dopo che nel 1773-74 ne era stato dichiarato il disarmo, nel 1776, al prezzo di 401 scudi dovette esser ricomprata dalla comunità cortonese che, per non vederla cadere in rovina, dovette pagare di nuovo un bene che le era già costato immensamente caro circa duecento anni prima.

Fu poi temporaneamente trasformata in carcere e, nell’occasione, qualcuno lasciò un ricordo di un umano e ingiusto soggiorno in queste stanze scrivendo in una delle sue pareti “Masetti-Cerusico Lardini “1779 il dì 3 Luglio fu carcerato Domenico Miari e fu trasportato in queste carceri senza alcun demerito per giorni…” prova tangibile del fatto che, purtroppo, gli errori giudiziari non sono esclusiva prerogativa dei tempi moderni.

Di nuovo caduta in disuso, nel 1897 fu di nuovo messa in vendita al prezzo di lire 9000. Nessuno, però, si offrì di acquistarla.

Scoperchiata, aperta a chiunque, vi si rubava quello che si poteva…ci fu chi cadde o si suicidò gettandosi dalle mura; vi trovarono rifugio coppie clandestine, vi venivano rinchiusi cani randagi e ogni tanto le guardie comunali o un loro addetto vi si recavano a fucilarle, ospitò durante la guerra figlie di italiani all’estero e vi si installò una ricetrasmittente tedesca” scrisse in “Immagine di Cortona” Monsignor Tafi.

Fu già con le prime fondamentali ristrutturazioni iniziate nell’anno 1969 e terminate in quel famoso 1972 che per l’antica Fortezza cominciò l’epoca della riscossa.

Tornata infatti finalmente in buona parte agibile e divenuta così usufruibile da parte della comunità cortonese, furono assegnati a questa rocca e agli ampi spazi in essa compresi compiti che mai fino ad allora nessuno aveva mai pensato di affidargli: quelli di sede di attività culturali, mostre d’arte e perfino di museo in cui conservare gli echi di quella civiltà contadina che è stata per secoli il fondamento dell’economia comunale.

Lavori di consolidamento delle strutture, di ripristino in sicurezza dei camminamenti, ricostruzione delle parti cadute, dotazione d’impianti di illuminazione, di sicura e comoda scala e ascensore, ripristino degli ambienti, dei cunicoli, delle rampe di accesso ai bastioni interrotti o crollati ecc..ecc..ecc.., che si aggiungono alle successive imponenti ristrutturazioni messe in atto grazie agli ingenti finanziamenti ottenuti grazie all’impegno appassionato e competente dei giovani componenti dell’Associazione ONTEMOVE, che con grande perizia, acume e creatività sono riusciti ad elaborare progetti che proponendosi lo scopo di trasformare questo sito in “spazio vivace e vissuto” in “luogo vitale e culturalmente appassionante..un recinto di creatività, un contenitore d’eccellenza per una produzione culturale di livello internazionale” (3), con l’organizzazione di mostre ed eventi artistici di alto livello e occasioni di aggregazione sociale di vario tipo hanno fatto sì che l’ancestrale acropoli tornasse a rivestire quel ruolo di luogo “sacro” nel quale, come in una sorta di rito religioso o magico, si persegue il bene della collettività creando occasioni che aiutano l’animo di ciascuno a librarsi in alto.

E che altro è se non un sito magico un luogo in cui soffermandosi a contemplare il fantastico panorama, ristorando il corpo stremato dalla canicola estiva al gradevole clima e al venticello leggero, intessendo nuovi rapporti umani o coltivando piacevolmente quelli già esistenti, risulta così facile estraniarsi dalla pesante vita quotidiana e sentire a poco a poco farsi sempre più piccole e insignificanti le sue ansie, dopo aver contemplato tutto ciò che di geniale riesce a produrre la natura e l’intelligenza dei nostri simili?

Che cosa sono infatti, se non pura magia la musica, il teatro, le arti visive, tutto ciò che crea il talento dell’uomo, perché no, un drink sotto le stelle in piacevole compagnia?

 

 

———– RINGRAZIAMENTI ———-

Ringrazio sentitamente il Teatro Stabile di Torino ed il fotografo Piergiorgio Naretto per avermi concesso gentilmente di usare la locandina dello spettacolo tenutosi nella stagione teatrale 1971/1972 e le relative foto di scena pubblicate in https://archivio.teatrostabiletorino.it/occorrenze/336-la-tragedia-di-macbeth-1971-72

Ringrazio anche i Sig.ri Herman Seidi e Nicola Tiezzi per avermi fornito le foto della Fortezza del Girifalco scattate dopo recenti ristrutturazioni ed in occasione degli eventi di vario genere che vi si sono tenute.

Le notizie storiche riguardanti la Fortezza che sono state assemblate in varie parti del presente articolo sono state reperite nei testi sottocitati:

1) “Immagine di Cortona – Guida storico-artistica della città e dintorni” – Angelo Tafi – Grafiche Calosci Cortona 19891) “Immagine di Cortona – Guida storico-artistica della città e dintorni” – Angelo Tafi – Grafiche Calosci Cortona 1989

2) Céline Perol “Cortona poteri e società ai confini della Toscana nel XV e XVI secolo” pubblicazione promossa dalla Associazione per il recupero e la valorizzazione degli organi storici della città di Cortona – Zetagraf Milano Luglio 2008

3) https://www.fortezzadelgirifalco.it/ebook.php

Antonella Scaramucci

Vi chiederete il perchè di questa foto. Beh, prima di tutto perchè crescendo sono peggiorata. E poi perchè, dovendo parlare di Pinocchio e delle origini cortonesi di Collodi, è bene tornare ai tempi in cui il mio babbo Folco me lo leggeva alla sera, facendosi (pure lui) delle grosse risate

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Antonella Scaramucci

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