È uscito in Inghilterra il libro di Diego Zancani, professore emerito dell’Università di Oxford, che, già al tempo del Tuscan Sun Festival, aveva parlato a Cortona di cucina rinascimentale e di altre delizie gastronomiche. Il libro si intitola How we fell in love with Italian food, e traccia, con un linguaggio semplice e accattivante, il lungo cammino e la continua ascesa del cibo italiano in Inghilterra, o meglio in Britannia, visto che la storia comincia proprio dal tempo dei Romani, ma prosegue con varie sorprese, di contatti medievali con le “lasagne” e altri piatti, e scoperte di viaggiatori inglesi e americani in Italia, grandi amanti dell’abbondanza di frutta, di pesci, di carni, di formaggi, per arrivare al contributo degli immigrati italiani in Inghilterra e più tardi delle prime autentiche trattorie, e della scoperta dei cibi regionali, comprese le minestre, i tipi di pasta, come i pici, i salumi, le verdure come il cavolo nero, l’aglione e tante altre buone cose per rimanere solo in Toscana.
Il libro è arricchito da numerose illustrazioni a colori, alcune tratte da famosi dipinti e da rari libri antichi, e da alcune fotografie di Gioia Olivastri, e da 16 ricette, alcune spiegate in inglese per la prima volta.
Quindi un libro per tutti, e se mai ne uscirà una edizione in italiano ve lo faremo sapere.
How we fell in love with Italian food è pubblicato da Bodleian Library Publishing (Oxford) ed è disponibile tramite Amazon.
Qui sotto una recensione scritta dal Prof. Paolo Gheri. Buona lettura.
La Redazione
UN LIBRO DEDICATO ALL’IMPORTANZA DEL CIBO ITALIANO IN INGHILTERRA
Recensione di Paolo Gheri
Esistono numerosissimi libri riguardanti il cibo, come la Storia dell’alimentazione curata da Jean-Louis Flandrin e Massimo Montanari, e molti altri che riguardano le tradizioni alimentari della Francia o dell’Italia e altri ancora si occupano della storia di un cibo in particolare, come la pasta o la pizza. Naturalmente nel campo dell’alimentazione esistono scambi continui, ma solo di recente si è cominciato a studiare seriamente l’influenza che, per esempio, la cucina arabo-persiana ha avuto sulla cucina dell’Europa occidentale e dell’Italia in particolare. Nessuno aveva ancora pensato di studiare, però, i rapporti culturali tra due tradizioni diverse come quelle dell’Italia e della Gran Bretagna. Il libro How we fell in love with Italian food (letteralmente “Come ci siamo innamorati del cibo italiano”) di Diego Zancani, che ha insegnato letteratura e storia della lingua per molti anni in diverse università del Regno Unito e particolarmente nell’Università di Oxford, parte da un aneddoto personale risalente alla fine degli anni Sessanta, quando era pressoché impossibile trovare olio d’oliva, che si vendeva in farmacia in piccolissime bottigliette, ultra raffinato per il trattamento del mal d’orecchi. A questo punto l’autore si chiede “Che cosa è successo a tutte le buone cose importate dai Romani quando invasero l’isola nel 42 d.C.?” In effetti la ricerca archeologica e quella storica hanno stabilito che al tempo le risorse alimentari dei Celti erano piuttosto limitate a poche bacche, tipo more di rovo o sambuco, pochissime verdure, e la carne di qualche animale da cortile, o cervide selvatico (anche se Giulio Cesare sostiene che i Britanni per motivi superstiziosi si rifiutavano di mangiare le oche o le lepri). Può darsi che qualche membro di tribù costiere potesse assaggiare qualche cosa di esotico, come la famosa salsa fatta con pesce fermentato, il cosiddetto garum (in Italia la colatura di alici che si trova nel Sud potrebbe essere la continuazione di questo preparato ricco di umami e di micronutrienti) o qualche bottiglia di vino proveniente dalla Gallia, ma in genere sembra che la dieta fosse più che povera. I Romani importarono quindi verdure e condimenti essenziali, compresi cavoli, aglio, cipolle, sedani, erbe odorose, rosmarino, timo, salvia, alberi da frutto come le mele (le uniche mele esistenti in Britannia erano piccolissime e selvatiche, pressoché immangiabili) e le ciliegie, e anche alberi utili per il legname come il noce e il castagno, nel sud dell’isola. Inoltre migliorarono l’allevamento di bovini, suini, e ovini e importarono vino e olive. Oggi è possibile stabilire che cosa si mangiava nei primi secoli dell’era volgare in Inghilterra, esaminando le ossa degli antichi abitanti, concentrandosi su certi isotopi tipici. Sembra che i più benestanti, compresi gli ufficiali dell’esercito romano preferissero il maiale al montone, anche se gli agnelli venivano usati nei sacrifici e quindi consumati dai partecipanti al rito.
Purtroppo quando i Romani abbandonarono l’isola intorno al 410 d.C. seguì un periodo di cui abbiamo pochissime notizie. Per avere documenti attendibili bisogna arrivare al periodo dei primi Re anglo-sassoni e alla cristianizzazione della popolazione nel VI sec. Altre notizie si possono estrarre da antiche saghe e qualche cronaca, e viene confermato che un’alimentazione prevalentemente carnea era preferita dalle classi agiate. I contatti con l’Italia continuarono anche nei secoli seguenti nonostante fossero ristretti a visite di alti prelati da Canterbury a Roma, e secondo la testimonianza del Venerabile Beda, Londra, nel VII secolo era già “un importante emporio”. Abbiamo infatti testimonianze che confermano la continuazione dei commerci tra gli abitanti dell’Europa continentale e quelli della Britannia. Nel 1066 i Normanni portarono abitudini alimentari della Francia del Nord, ma un’importante raccolta di ricette databile al XIV secolo e probabilmente composta per la corte reale, contiene la descrizione di un piatto di “losanghe” (loseyns) fatte di pasta, con una semplice ricetta che sembra ricalcare quella di un libro di cucina italiano, in cui la pasta, una volta cotta, veniva servita con abbondante burro e formaggio grattugiato. Questo ci fa pensare che il parmigiano arrivasse abbastanza presto in Albione, ma non abbiamo prove fino al secolo XVI quando papa Giulio II inviò cento ruote di parmigiano ad Enrico VIII, forse nella speranza di evitare lo scisma. Dopo di che abbiamo chiare testimonianze della fortuna di questo formaggio sulle tavole delle classi abbienti. Nel 1666 un alto funzionario della Marina e autore di un notissimo diario, Samuel Pepys, scrive che, durante il grande incendio di Londra, seppellì nel giardino di casa, per paura del fuoco, il suo “Parmazan” insieme ad alcune bottiglie di vino francese di un suo amico. Dopo di che sembra che, soprattutto a Londra, incominciassero ad apparire negozi specializzati, noti come “Italian warehouses” che vendevano olio di oliva (principalmente di Lucca e Firenze), acciughe, olive e parmigiano, e qualche volta vermicelli.
I contatti con la cultura italiana vengono poi investigati attraverso i numerosi diari di viaggio che ci hanno lasciato gli scrittori dei secoli dal XV al XVIII, ma anche più tardi continuano le scoperte e l’ammirazione degli inglesi e americani per la frutta, soprattutto per i vari tipi di meloni, per l’abbondanza di prodotti ittici, soprattutto a Venezia, e la diversità di pollame e cacciagione nei mercati. Già nel 1596 viene tradotto un ricettario noto come Epulario che contiene molte ricette provenienti dal più grande cuoco italiano del Quattrocento, Maestro Martino de’ Rossi. E anche in seguito compaiono, in raccolte inglesi diversi piatti ispirati alla Lombardia, o che ricordano città dell’Emilia, come il boloney, una salsiccia ispirata alla mortadella di Bologna, o ricchi “stufati napoletani”.
La narrazione della storia del cibo italiano in Inghilterra non si limita ai racconti derivati da ricette e viaggiatori, ma mette in rilievo il contributo degli immigrati italiani a Londra e in altre città che a metà Ottocento vendono castagne e patate arrosto d’inverno e gelati d’estate, riuscendo talvolta ad aprire dei piccoli caffè e, più tardi, anche le prime trattorie in cui si offrono semplici piatti italiani, tra cui i maccheroni, noti in Inghilterra e in America come macaroni. Nel Novecento la cucina dei ristoranti è principalmente ispirata a ricette francesi, molti piatti vengono serviti con classiche salse francesi, ma lentamente incominciano a comparire anche piatti italiani, lasagne al sugo, per esempio, o risotto alla milanese. Questi piatti erano offerti all’alta borghesia. La cucina in Inghilterra subì un grave tracollo con le due guerre mondiali e soprattutto con la seconda, quando il razionamento di quasi tutti i prodotti essenziali (è noto che anche la famiglia reale aveva il suo “libretto” per le razioni come tutti gli altri cittadini) produceva notevole scarsità. Il razionamento, per alcuni prodotti, come la pancetta (bacon) e altri tipi di carne terminò soltanto nel 1954. Ma già dai primi anni Cinquanta incominciarono a comparire importanti libri sulla cucina italiana, come quello di Elizabeth David, anche se molti ingredienti erano ancora difficili da trovare, compresi un buon olio d’oliva, qualche zucchino, o un pezzo di parmigiano, per non parlare delle sconosciute scaloppine. Le cose incominciarono a cambiare negli anni Sessanta quando, per iniziativa di uno chef di origine piacentina in America (Ettore Boiardi, noto come “chef Boyardee”), arrivò la pasta pronta in scatola, e i ravioli col sugo che furono, per molti inglesi, il primo contatto con la pasta.
Nel 1965 la prima pizzeria di Pizza Express aprì a Londra e dopo pochi anni, 300 altre pizzerie della stessa catena spuntarono in varie parti del Regno Unito. Moltissimi italiani lavoravano nella ristorazione, come camerieri, cuochi ecc. E due geniali napoletani aprirono la prima vera “trattoria” a Soho, destinata a rivoluzionare l’atteggiamento degli inglesi verso il cibo italiano, presentato come “autentico” e cucinato con ingredienti freschissimi e di prima qualità. La Trat, come veniva chiamata, ebbe un enorme successo e moltissimi imitatori. Nei primi anni Settanta in alcune parti del Regno Unito i supermercati offrivano principalmente prodotti in scatola o congelati, con pochissime verdure fresche, come patate, qualche cipolla e carota. Ma in seguito alcuni supermercati incominciarono a fornire prodotti genuini importati dall’Italia. Evidentemente l’importazione era stata resa più facile dall’entrata della Gran Bretagna nel Mercato Comune Europeo, nel 1972-73. Da allora in poi si può dire che il cibo italiano è stato tra gli assoluti protagonisti nella diffusione di ristoranti e punti vendita. Oggi non solo si conoscono i prodotti più tradizionali, ma si ricercano quelli regionali, con eccellenti oli extra vergine d’oliva provenienti da uliveti liguri, toscani, abruzzesi, calabresi, pugliesi o sardi. Nei supermercati compaiono non solo prosciutti di Parma o di S. Daniele, ma anche salumi come “prosciutto toscano arrosto”, porchetta, rigatino affumicato, e la ‘nduja, una volta rara, ora si trova in diverse confezioni. Una verdura come il cavolo nero venne introdotta soltanto verso la fine degli anni Ottanta in un ottimo ristorante di Londra, il River Café, ed ora si trova sui banchi dei mercatini e in molti supermercati. I carciofi, una volta rarissimi, costosissimi e molto duri, si trovano ora freschi e ottimi prodotti da fattorie nel sud d’Inghilterra, anche se moltissimi clienti si chiedono “cosa si fa con questi?” Il numero di ristoranti ispirati all’Italia, ma aperti da giovani chef inglesi, è vastissimo, soprattutto nella capitale.
Il libro è corredato di un glossario di termini italiani, indici e una ricchissima bibliografia, contiene numerose illustrazioni e foto di Gioia Olivastri pertinenti al tema, e sedici ricette di piatti come gli gnudi, osso buco, timballo di maccheroni, e torta di mandorle.
Paolo Gheri