Mia nonna, la mia mamma alla sua destra e, dall’altro lato, mia zia Guglielma, la sorella di mia madre
Una foto, la prima insieme della loro vita, fatta sicuramente per mandare “a futura memoria” la raggiunta serenità dopo che, dalla più tenera infanzia alla gioventù, da sole ma sempre unite, avevano lottato per superare i danni tragici che una guerra atroce, la I guerra mondiale, aveva causato nelle loro vite.
La prima foto fatta insieme e anche l’ultima perché quella leggerezza d’animo sarebbe durata, ahimé, molto poco. Trascorsi infatti appena pochi anni da quel giorno – ma così pochi che si sarebbero potuti contare sulle dita di una sola mano – e un’altra guerra insensata, la II guerra mondiale, avrebbe di nuovo travolto le loro vite. E stavolta ancora più tragicamente.
Dicono che in guerra, in una qualsiasi guerra può accadere. Per esigenze difensive, dicono, anche questo può succedere. Morire ad opera di bombardamenti alleati, intendo.
Come fosse una cosa accettabile. Come se già non fossero assurde e intollerabili le mille altre cose orribili che possono accadere in una guerra.
Non posso capacitarmene, non vorrei crederci ma ciò che è realmente accaduto a lei, a mia zia Guglielma, e insieme a lei ad un numero incalcolabile di altri esseri umani, mi costringe a prenderne dolosamente atto.
Mia zia Mina, così la chiamavano in casa fin dalla nascita, rimase sepolta, con la sua bambina, sotto le macerie del palazzo in cui abitava a Roma, in via Ostiense e come lei quel giorno, in quel solo Quartiere e per lo stesso motivo, morirono un’infinità di civili, forse 400 e molte, molti di più furono coloro che rimasero feriti.
Non fu purtroppo un episodio terribilmente tragico ma isolato, assolutamente no.
Quello, in realtà, non fu né il primo né l’ultimo bombardamento operato su Roma dall’esercito degli alleati: nel periodo compreso tra il luglio dell’anno 1943 e il maggio del 1944 gli attacchi dal cielo sulla capitale si succedettero frequentissimi e tutti, immancabilmente, provocarono la morte e il ferimento di un numero esagerato di altri esseri umani.
Un libro “Roma violata” (1), in cui non troppi anni fa furono finalmente pubblicati i verbali ufficiali delle missioni effettuate dai bombardieri americani, – documenti originali dei Servizi Segreti di quel Paese rimasti riservati per un gran numero di anni -, volume corredato dall’autore con tanto di numeri e immagini terribilmente crude, me ne ha dato, purtroppo, una tristissima conferma.
Mia zia Guglielma, ventiduenne, sposata a Roma da circa tre anni e madre da appena due di una bambina, abitava, per sua sfortuna, in una zona, l’Ostiense, che per la presenza della stazione ferroviaria, dello scalo merci e del gasometro era considerata una delle più strategiche della città e che, per tale motivo, i comandi alleati ritenevano indispensabile annientare se si voleva neutralizzare l’offensiva nemica.
Un “esigenza bellica” che in quei lunghi e tristi mesi aveva reso quel Quartiere uno dei bersagli preso di mira più insistentemente dalle incursioni aeree degli alleati.
L’urgenza di sopraffare l’avversario richiedeva di non tener conto del fatto che in tal modo si sarebbe sacrificata la vita di un gran numero di civili del paese “amico”, e che tra questi sarebbero stati colpiti, tanti bambini in quelle ore ospitati nell’asilo di zona, gli anziani, gli invalidi e le donne, esseri umani che, perfettamente ignari di ciò che li stava aspettando, conducevano nel frattempo, in casa, per la strada, a scuola , nei negozi la loro consueta vita quotidiana. In quel Quartiere così come nei molti altri della città che via via quasi quotidianamente divenivano oggetto dell’ offensiva “amica”.
“Era indispensabile, sfiancare l’avversario” dicono quelli che ritengono la guerra un modo giusto di risolvere i problemi tra i popoli.
Quel mattino, quello del giorno in cui mia zia e la sua bambina furono travolte dalle macerie della loro casa, le incursioni aeree in Via Ostiense furono tre. Lo attestano i verbali pubblicati nel libro che ho citato sopra.
La prima alle 11,07, la secondo alle 11,23, l’ultima 11,24 .
Furono 180 gli ordigni sganciati durante il primo attacco, 142 quelli sganciati con il secondo e 131 con il terzo. 18 di questi erano del tipo “a scoppio ritardato”.
Mia zia Mina, in quel momento era in casa con la sua bambina.
Forse fino ad un momento prima che scattasse l’allarme aereo era intenta a preparare il pranzo o a far pulizie. Forse stava giocando con la bimba… chissà.
Di sicuro sappiamo solo che, resasi conto di quanto stava per succedere, obbedendo ad un più che naturale ed istintivo slancio di amore materno, riuscì a salvare la piccola facendole scudo con il proprio corpo.
Era il 3 Marzo del 1944.
Il giorno tragico, anche se non l’unico per la Roma di quel periodo, che Roberto Rosellini ha amaramente immortalato in “Roma città aperta”.
Fu proprio in quel giorno infatti, il 3 Marzo del 1944, che oltre alle 1742 bombe sganciate dall’alto su vari quartieri della loro città, oltre ai molteplici e spesso ingiustificati rastrellamenti di persone assolutamente innocenti – talvolta addirittura di passanti casuali -, perpetrati dagli appartenenti all’esercito nemico ormai allo sbando, i romani si trovarono ad assistere all’ evento drammatico che fu poi reso indimenticabile in tutto il mondo dal film “Roma città aperta”: la disumana uccisione di Teresa Gullace nata Talotta, la donna che ispirò a Roberto Rossellini “la sora Pina” il personaggio che ha commosso e continua a commuovere universalmente chiunque abbia un briciolo di cuore e che nel film, impossibile non ricordarlo, fu magistralmente interpretato da Anna Magnani.
Teresa Gullace, realmente esistita e realmente assassinata da mano tedesca proprio quel giorno soltanto perché aveva tentato di avvicinarsi alla finestra della caserma in cui il marito era detenuto e in attesa di deportazione, aveva 36 anni, era incinta di 6 mesi e aveva a casa altri 5 figli che la aspettavano. (2)
Non ho mai potuto, dalla mia infanzia in poi, pensare a questa sorella tanto cara a mia madre senza che le immagini di quel film tornassero ogni volta a scorrermi davanti agli occhi e senza che un nodo di pianto mi stringesse la gola. E mai, d’altro canto, rivedendo quel film sono riuscita ad impedirmi di provare nuovamente il sentimento penoso, la compassione che provavo nel vedere la mia mamma e la mia nonna guardarsi tra di loro, guardarsi e basta per poi abbassare, entrambe, immediatamente lo sguardo, ogni volta che qualcuno accennava a quegli eventi anche solo di sfuggita o quando quei fotogrammi, anche per un attimo, venivano riproposti in televisione.
Non piangevano, io non le ho mai viste piangere, ma si guardavano e quello sguardo era carico di un silenzioso e dignitoso dolore, di una muta sofferenza che a me stringeva il cuore.
Chissà che stavano facendo loro, le due donne, qui a Cortona, il 3 Marzo 1944 tra le 11, 07 e le 11,24 del mattino mentre a Roma le macerie provocate dai bombardamenti “amici” crollavano su Guglielma, chissà se anche solo un vago presentimento di sventura avrà attraversato le loro menti durante le lunghe e angoscianti ore in cui i soccorritori, a Roma, lavorarono per riuscire ad estrarre il corpo della giovane mamma e quello della bimba ancora viva da sotto a quelle macerie.
Per quanto anche a Cortona la guerra avesse già provocato nelle famiglie grandi dolori, tanta miseria e tanta fame, mia madre e mia nonna non potevano certo immaginare quanto di estremamente più tragico stava accadendo nella capitale. E non potevano certo sospettare quanto avrebbe coinvolto anche loro quel poco di cui incidentalmente venivano a sapere.
Una foto serviva loro per ricordare Aura, quella che mia madre già all’ultimo mese della sua prima gravidanza, aveva fatto con la bimba in braccio nell’Agosto del 1942, quando questa di poco più di 8 mesi di età era stata portata a Cortona per far conoscenza con loro,e poi più niente, da mesi non avevano ricevuto notizie della loro Mina e per molti, molti mesi ancora non ne avrebbero ricevute.
Difficoltà postali dovute alla guerra, credevano. Per quanto molto preoccupate, speravano ogni giorno di riceverne.
Erano sole a Cortona e non avevano modo di raccogliere notizie radiofoniche o di leggere quotidiani, niente e nessuno poteva dar loro il sentore di quanto la situazione nelle grandi città e in particolar modo a Roma fosse molto più drammatica che qui.
Erano sole a cercare di scampare i pericoli e le difficoltà quotidiane e benché la loro vita passata le avesse già molto allenate a sopportare dolori, a cavarsela di fronte a ogni incombenza economica e familiare, a mettere insieme il pranzo con la cena, da qualche tempo avevano un nuovo e impegnativo compito da assolvere: in tempi tanto magri, da ormai 17 mesi a quella parte, avevano un bambino da tirare su.
Mio padre che, ancora soltanto fidanzato con quella che in futuro sarebbe stata la mia mamma, nel 1938 era partito per svolgere il normale servizio di leva obbligatorio per tutti i giovani della sua età, poco prima che fosse giunto il momento del suo congedo fu colto, ancora “sotto le armi”, dallo scoppio della guerra.
A casa per un giorno, giusto quello utile per sposare mia madre, in quell’unica notte concepire il loro primo figlio e poi di nuovo lontano, sbatacchiato di qua e di là per l’Italia. Non tornò più a Cortona fino al cosiddetto “passaggio del fronte” e in quel paio di giorni in cui poté trattenersi a casa ebbe appena il tempo di conoscere il suo primogenito che aveva già compiuto 4 anni il quale, vedendo un uomo in divisa abbracciare mia madre, scappò per strada a cercare l’aiuto delle vicine urlando: “Aiuto donnine inglese abbraccia mamma”. Non era ancora in grado di riconoscere uniformi militari ma, per quanto piccolo, aveva già carpito che in quei tempi di barbarie anche quelli erano i rischi che le donne sole potevano correre.
Due giorni insieme, il tempo di mettere al mondo il secondo figlio, e il suo “dovere” di soldato lo riportò lontano da casa. Ma questa volta, per fortuna, per poco.
Negli anni trascorsi prima del suo ritorno, quelli in cui la guerra mieteva tante vittime e rendeva la vita delle donne rimaste a casa tanto difficile, il piccolo aveva avuto bisogno di latte, di carne, di indumenti e di scarpe adatti a sopportare gli inverni allora molto crudi. E c’era stato bisogno di legna per scaldare la casa e di medicine nel caso si ammalasse..
Mia nonna aveva perciò dovuto riprendere a fare le famigerate “nottate” insieme alle pulizie diurne nella case altrui, i lavori grazie ai quali era riuscita a crescere i tre figli dal momento in cui, a soli 33 anni, era rimasta vedova.
Adesso , tempo di guerra, il razionamento alimentare aggravava il problema di nutrire il bambino. Per arrotondare le entrate misere che gli procuravano quei lavori mia nonna si prestò ad andare in giro a fare iniezioni non solo per le case della città, ma anche – e preferibilmente – per quelle della campagna che potevano esser raggiunte a piedi nel giro di qualche ora. Accettava di buon grado di spingersi anche fino alle località che si trovavano ai piedi della collina cortonese fino a Il Sodo, o, dalla parte opposta, al Campaccio: la gente di campagna, infatti, preferiva sdebitarsi con lei offrendole il latte prodotto dalle proprie mucche, l’olio dei ottenuto dai propri olivi, pane fatto in casa, verdure, formaggi, cose che in quei tempi difficili erano spesso impossibili da acquistare se non al mercato nero.
Impegnate come erano a superare tutte le difficoltà che un momento terribile come quello comportava giorno per giorno, mamma e figlia nulla immaginavano ancora del destino toccato alla loro Guglielma.
Avrebbero saputo tutto solo quando, uscita dal pericolo di vita, ma ancora piena di quelle “croste” che le avevano lasciato in eredità le innumerevoli ferite dalle macerie dalle quali era stata estratta, videro arrivare a casa, qui a Cortona, assolutamente inaspettata, la bimba con il padre.
Soli.
Roma non era certo più il posto adatto a far crescere quella bambina che da poco era riuscita a superare le gravissime conseguenze delle ore vissute sotto alle macerie e a Cortona, mio zio lo sapeva, la “nonna Tonina” e la “zia Wilma” avrebbero senza dubbio riversato su Aura tutto l’amore di cui erano capaci e le loro cure affettuose insieme alla presenza del cuginetto quasi coetaneo sarebbero di certo riuscite a completarne la guarigione e a farle dimenticare almeno in parte il trauma che aveva segnato la sua psiche di bimba , shock che nessuno, nella sua intera vita, è mai riuscito a cancellare. Almeno non del tutto.
Quanto era lontano, nonostante così vicino nel tempo, il giorno in cui, le due sorelle con il loro abitino grazioso, le scarpe con le zeppe all’ultima moda avevano posato con la mamma per essere ritratte insieme, lì poco distante dalla loro casa, lungo la strada che appena fuori Porta Colonia, sale verso il Torreone.
Conoscendo mia nonna, una donna tutto cuore ma molto riservata e amante dell’essenziale, quella foto deve esserle apparsa una frivolezza assolutamente poco opportuna, uno sforzo però da fare per accontentare le due ragazze che in quel modo intendevano definitivamente buttarsi alle spalle le dolorose ristrettezze e le infinite difficoltà che avevano martoriato la loro vita di bimbe. Una concessione alla “futilita” con cui speravano di recuperare un po’ della spensieratezza che “la grande guerra” aveva negata alla loro infanzia e alla loro adolescenza.
Erano stati anni tristi e durissimi quelli passati ma ora, al momento della foto, grazie al lavoro, modesto che erano riuscite a procurarsi, le due ragazze potevano contribuire, anche se poco, all’economia familiare fornendo a mia nonna la possibilità, dopo tanti anni, di interrompere almeno l’infinita sequela di notti insonni passate al capezzale di infermi che avevano bisogno di assistenza.
D’ora in poi sarebbe bastato il“servizio” di pulizie nelle case delle famiglie benestanti, l’altro lavoro che aveva tenuto la loro mamma lontana dalla propria casa per gran parte delle sue giornate.
Quando erano rimaste orfane Wilma, mia madre, la più grande dei tre aveva solo 8 anni. 6 ne aveva Odoardo il figlio maschio, 4 Guglielma.
Il mio nonno, tornato da quella guerra con una gamba amputata. era morto, a 33 anni, per “gangrena” (proprio così recitava un documento che accerta a la causa del decesso) di quello che restava di quella gamba amputata e “tubercolosi polmonare”.
Non importa però che sia morto dopo un lungo periodo di stenti rimasti indelebilmente impressi nella psiche dei figli, non essendo morto nel campo, ma solo qualche anno dopo e a casa propria, non troverete il suo nome, Tribbioli Angiolo, nell’ “Albo d’oro” dei caduti di quella guerra.
E non lo troverete neanche in lapidi, né in monumenti innalzati alle vittime di quell’impresa disgraziata i cui scopi, forse, avrebbero potuto essere raggiunti, volendo, con abili azioni di diplomazia. Volendo.
E nessuna menzione tra gli eroi o eroine di guerra è toccata né a mia nonna né, del resto, a nessuna dei milioni di donne che da sole, mentre gli uomini combattevano per una causa che altri avevano sposato per loro, hanno dovuto superare tutti i dolori che quella guerra aveva comportato ed insieme a quelli risolvere, sempre da sole, quelli procurati dalla miseria, dai problemi di salute, dalla educazione dei figli e dalla necessità di assistere gli anziani.
Finché fu in vita io non l’ho mai vista piangere, non l’ho mai sentita fare appello alle sue vicissitudini passate per ottenere considerazione o rispetto.
Giovanissima, perché aveva solo 33 anni quando è rimasta vedova, ma ne aveva ancora meno quando il marito è tornato dalla guerra invalido e malato, aveva preso sulle spalle quella croce,
Come prese in seguito l’altra ancora più drammatica della morte della figlia, e con coraggio e grande dignità sulle spalle se l’era sempre portata. Senza recriminare, senza far leva sulla pietà che la sua difficile vita avrebbe potuto suscitare nel prossimo.
Eppure non credo che possa esserci dolore più straziante di quello che un genitore, ma soprattutto una mamma, può provare per la morte di un figlio. Meno che mai se, come lei, lo immagina morire solo mentre implora un aiuto che nessuno può dargli. Una ferita che non può smettere di sanguinare, una lacerazione dell’anima che non può assolutamente rimarginarsi.
Pacata, apparentemente sempre serena, starle vicino dava un senso di sicurezza e serenità.
A mia madre e a suo fratello Odoardo, quando ormai avevano di gran lunga superato la settantina fu riconosciuta una piccola pensione come orfani di guerra. Oltrepassata di molto la settantina, però.
Nessun riconoscimento economico, comunque, per quanto più consistente e tempestivo potesse esser stato, avrebbe mai potuto risarcirli dell’infanzia e dell’adolescenza, dei giochi e della vita spensierata a cui avevano dovuto rinunciare.
E in nessun modo avrebbero potuto esser restituiti a mia madre, la più grande dei tre che, come tale era, era stata costretta a crescere molto prima di quello che la sua età avrebbe dovuto permettere.Era lei che doveva dar sicurezza ai fratelli durante le notti, tante notti, che la loro mamma non poteva trascorrere con loro ma al capezzale di persone che avevano bisogno di assistenza.
A lei che era la più grande, ma pur sempre una bambina, era poi demandato il compito di alzarsi prestissimo per preparare i fratellini per la scuola, fare un po’ di faccende di casa per evitare che mia nonna rientrando dovesse sobbarcarsi anche quelle, per poi correre in tutta fretta a scuola dove una suora, che non voleva intendere ragioni per i sui quotidiani ritardi, la puniva ogni giorno obbligandola a stare dietro alla lavagna con tanto di granturco sotto le ginocchia.
Fu per questo motivo che, arrivata alla terza elementare, volle a tutti i costi smettere di studiare nonostante fosse, secondo il mio giudizio, molto dotata: non ho mai visto cose scritte da lei che contenessero errori di ortografia o grammatica e, ancora a novant’anni e malgrado la demenza senile, quando in TV vedeva reclamizzare un prodotto al quale si sarebbe applicato uno sconto non facilmente calcolabile a mente da parte di chiunque, ad esempio del 37%, come obbedendo ad una sorta di automatismo, quantificava in una frazione di secondo, ma proprio alla velocità della luce, la cifra esatta alla quale sarebbe stato venduto.
Evidentemente la necessità di aiutare la mamma a far quadrare il bilancio familiare e a spaccare la lira in quattro era stata per lei la miglior scuola.
Spettava sempre a lei infatti, benché fosse bambina, o forse proprio per quello, il compito ingrato di recarsi dai negozianti o dal padrone di casa, per muoverli a pietà, quando, talvolta, la nonna si rendeva conto che, nonostante gli sforzi ed i sacrifici , non avrebbe almeno temporaneamente potuto assolvere ai suoi crediti nei loro confronti.
La vergogna e la paura di esser maltrattata le rendevano questo compito ostico ma non poteva tirarsi indietro, la mamma ed i fratellini avevano bisogno di questo sacrificio.
E quando anche a lei, come accadeva a tutte le femminucce della sua età, veniva voglia di giocare “alle signore”, non si abbatteva: facendo di necessità virtù indossava una collana e un paio di scarpe con i tacchi, cose vecchie che, intenerita, le aveva regalato una di quelle signore da cui mia nonna andava a “ servizio”, e figurandosi di essere la mamma dei suoi fratellini, spicciava realmente tutte le faccende di casa che le altre bambine fingevano di fare ma solo per gioco.
Dicono che da adulta il suo fosse “un bel caratterino” e di sicuro io l’ho conosciuta come una nonna sempre molto schietta, qualche volta un po’ troppo schietta, e determinata, molto determinata.Nessuna situazione, anche se molto incresciosa o difficile la spaventava e non si intimoriva di fronte a nessuno.
Lo credo bene. Quella scorza coriacea le veniva da molto lontano.
Allenata ad affrontare il peggio della vita, nei momenti più bui dava il meglio di sé: ad ogni difficoltà familiare era lei a prendere in mano la situazione e senza perder affatto la calma, reagiva con freddezza e lucidità, riuscendo a superare qualsiasi scoglio o contrattempo. Se era sicura di aver ragione non si intimoriva di fronte alle persone autorevoli o autoritarie, anzi di fronte a loro, senza piangere, recriminare o urlare, ricorreva alla sua logica schiacciante: è accaduto raramente che non riuscisse ad averla vinta.
La morte tragica della sorella che aveva cresciuta come fosse la sua bambola e con cui poi quasi in simbiosi aveva diviso l’adolescenza e i primi anni di gioventù, e l’angoscia per la figlia di lei rimasta orfana in modo così ingiusto, non aveva di certo contribuito ad assottiglia quella corazza di eccessiva sicurezza che negli anni dell’infanzia aveva dovuto crearsi per difesa che ha corrisposto da adulta ad un fare un po’ spiccio e poco incline alle inutili smancerie.
Scaltra e intuitiva, avvertiva al volo se qualcuno, anche uno di noi figli o il marito, gli tendeva elegantemente un tranello ed era difficile, veramente difficile farle “bere” una bugia. Preferiva, del resto, una verità anche brutta detta magari con poca diplomazia ad un fare ruffiano che nascondeva ipocritamente un’intenzione nascosta che lei “captava” come avesse un radar e che con pochissime parole, ma taglienti come scimitarre, stigmatizzava immediatamente.
“Un bel crostino” insomma diremmo noi cortonesi.
Un crostino con cui però poteva anche esser piacevole aver a che fare perché la gaiezza di cui l’aveva fornita la natura, quella che le difficoltà e i grandi dolori avevano, giocoforza, tenuto “sotto copertura”, molto spesso veniva fuori e quando in lei il buonumore prendeva il sopravvento la sua vitalità era coinvolgente. Bastava che una musica allietasse l’ambiente, magari quella delle feste danzanti che si tenevano all’aria aperta o quella delle canzoni che provenivano dalla radio, e il suo bisogno di allegria ne veniva solleticato. Allora era impossibile che resistesse alla voglia di cantare e a muoversi a tempo di musica e trascinava a farlo anche chi le era accanto.
Questa sua natura briosa la percepivano i bambini, tutti i bambini, anche quelli che non la conoscevano: da anime pure avvertivano il fortissimo istinto materno di cui era dotata e riconoscevano in lei quella bambina che non avrebbe mai voluto crescere e che ancora, benché anziana, cercava di emergere alla luce. Nel vederla arrivare ognuno di loro cominciava ad agitarsi per essere notato e tutti, immancabilmente, con grandi sorrisi che andavano da orecchio a orecchio la invitavano, anzi la obbligavano, a prenderli in considerazione.
Non era affatto facile, di contro, accettare la sua ombrosità nei giorni “no” e il suo schernirsi quasi irritata di fronte ai tentativi di noi familiari di baciarla ed abbracciarla.
E’ praticamente impossibile, ma solo ora che la vita ha provocato anche in me tante amarezze e delusioni lo capisco in pieno, abbandonarsi ai sentimenti positivi dopo che, più e più volte, esperienze tragiche ti hanno insegnato che quando meno te lo aspetti, nei modi più impensati, l’amore delle persone a cui tieni di più ti può esserti tolto, e che non è solo dolorosissimo ma anche terribilmente destabilizzante rinunciare a chi rappresenta una parte fondamentale della tua vita.
Era, quello di mia madre, un modo istintivo quanto inconsapevole di difendersi che ora, da adulta, riesco pienamente a giustificare ma che non potevo comprendere allora, quando con il suo atteggiamento di irritata ritrosia mi dimostrava di non capire che con i miei abbracci di bambina volevo solo comunicarle che di me si poteva fidare, io non l’avrei abbandonata.
Ne rimanevo mortificata ma non avevo il coraggio di insistere.
Lo sapevo e lo so che tutta la sua abnegazione, tutto il suo saper anticipare qualsiasi nostro bisogno, tutto il suo rinunciare a tutto per sé per costruire a me e ai miei fratelli un sereno futuro non erano altro che modi in cui si manifestava, tacitamente, il suo amore per noi,un amore più grande di quello che si dimostra con frasi dolci ed effusioni affettuose, ma in quelle occasioni non potevo far a meno di sentirmi ferita e, ormai abituata a rinunciare a “inutili moine”, tendo anche io a ripetere il suo errore chiudendomi in un bozzolo di riserbo che poi non è altro che un’idiota prudenza, una insulsa paura, un allenarmi prima che accada a fare a meno di quelli a cui voglio un gran bene.
Una “autoprivazione” istintiva che coscientemente mi rimprovero ma non riesco a controllare e che mi ha sempre tolto molto di quello che di piacevole può dare la vita.
E anche se piccola cosa anche questa, non posso fare a meno di pensarlo, è un eredità sgradita che indirettamente ho ricevuto anche io da quelle due guerre infami e che mi convince sempre di più che le brutte conseguenze di un conflitto bellico possono essere tali e tante, possono essere così impensate e protrarsi per così tanti anni, che non potrà mai esistere un buon motivo per intraprenderne una. Se non per qualche inconfessato ed inconfessabile interesse di qualche bieco potente.
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Note:
1) Gastone Mazzanti “Roma violata” Teos Grafica s.r.l. Roma 2006
2) https://patrimonio.archivioluce.com/luce-web/detail/IL3000009024/12/palazzi-sventrati-dalle-bombe-nel-quartiere-ostiense.html?startPage=$%7BstartPage%7D
3)https://roma.repubblica.it/cronaca/2019/06/04/news/e_morto_mario_gullace_il_figlio_di_teresa_che_ispiro_roma_citta_aperta_di_rossellini-227941941/
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