I contratti discografici di una volta si aprivano con l’avvertenza che il nome del cantante sarebbe stato scritto solo in apertura e che nel testo a seguire sarebbe stato sostituito dalla laconica definizione di “artista”.
Mi è venuto in mente questo aneddoto, nella ventosa giornata di marzo in cui abbiamo salutato per l’ultima volta Pierluigi Galli. Per brevità “artista”, o “maestro”, perché sono poche le parole realmente in grado di raccontare i mille riflessi della sua iridescente personalità.
In questi anni maledetti, che vedono Cortona svuotarsi dei suoi spiriti migliori – troppe volte sentiamo le campane dell’addio, quassù in collina – è tristemente facile pensare a quanto sentiremo la mancanza di persone come lui.
Pierluigi viveva ogni istante e ogni battaglia con la vorace esuberanza di un ventenne, come se il domani fosse lontanissimo – c’è ancora tanto da fare, da creare, da divorare prima che sia tardi!
L’ho conosciuto solo negli ultimi anni, e devo dire che a me – riflessivo, melanconico e analitico – il suo attivismo prorompente aveva creato all’inizio una certa diffidenza. Bastarono sei parole per stracciare le mie perplessità: “vieni a vedere la mia mostra”.
Ammirare le sue “nature vive” mi permise di toccare l’anima di Pierluigi, un ragazzo di settant’anni che percepiva il mistero del mondo con le antenne dell’artista, e liberava queste rivelazioni sulla tela, sulla pelle, sul legno o sulla ceramica.
Fu allora che compresi che ciò che non capivo di lui era quello che inconsciamente gli invidiavo: la brama di vivere.
Glielo devo dire, quando mi ripassa davanti.
A morte é a curva da estrada,
morrer é só não ser visto.
La morte è la curva della strada,
morire è solo non essere visto.
(Fernando Pessoa)
Pierluigi Galli, 1943-2019.
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