“…Le merendine di quand’ero bambino, i pomeriggi di maggio non torneranno più…” (1)
A me da bambina tutto sembrava bello ed esaltante dell’estate. Divertente e piacevole. Anche il caldo torrido.
Mai come in quelle giornate assolate di fine anni ‘50, invece, il sole cocente e l’afa mi sono sembrati così facili da sopportare, la fetta di cocomero acquistata e mangiata appena fuori Porta Colonia così gustosa, le canzonette così elettrizzanti o spensierate, e mai dopo allora i braccialettini fatti con i “chicchirichì” mi sono apparsi così eleganti, le feste da ballo al Parterre così divertenti, le passeggiate notturne con i genitori in cerca di fresco e di “lucciapalle” così avventurose .
E, soprattutto, nessuna festa popolare mi è sembrata più bella di quella con cui a Cortona il 15 Agosto di ogni anno si rendeva onore all’Assunzione di Maria Vergine: la “Madonna dei Gingilli”.
Era “ferragosto”, un giorno di piena estate in cui il solleone faceva sorridere anche i vicoletti più bui della città.
Per tanti, se non per tutti, era un agognato giorno di ferie dal lavoro.
Nessun cortonese di allora avrebbe potuto scordare che quella che si festeggiava in quel giorno era, prima di tutto, una importante ricorrenza religiosa.
Il simultaneo e gioioso concerto di un numero incalcolabile di campane, infatti, impediva a chiunque di dimenticarlo annunciandolo “urbi et orbi” fin dal primo mattino, e una identica sinfonia lo ricordava a tutti, ad ogni scoccar di ora di quella giornata.
Non c’era campanile, dai quelli più “autorevoli” delle chiese del Centro storico, a quelli più umili dei conventi e delle chiesette site al di fuori delle mura o ai piedi della collina cortonese, che in perfetta sincronia con tutti gli altri, quasi a mo’ di richiamo, non provvedesse a diffondere nell’atmosfera luminosa di quella giornata il suono delle proprie campane, greve e imponente, squillante o delicato, lontano e appena percettibile dalla città che fosse.
Un’esibizione “musicale” che a mezzogiorno diventava una suggestiva esplosione di suoni festosi.
Per me, come del resto per tutti i bambini della città, della montagna, della valle, era il giorno “clou” dell’estate, quello che, appena passato il Natale, cominciavamo ad aspettare con fibrillante impazienza.
Eppure l’appellativo scelto dai cortonesi per dare un nome a questa festa aveva, nella vulgata popolare del nostro territorio, un ben preciso e inequivocabile significato: erano solamente “gingilli” quelli esposti nelle numerose bancarelle che in quel giorno riempivano di colori e suoni la Piazza del Duomo e le altre piazze e vie circostanti. Non si potevano di certo definire veri e propri giocattoli quegli oggettini di poco valore che nel corso di quella giornata riuscivamo a farci regalare dai nonni ai quali, per tradizione, era demandato il compito di accompagnarci nei lunghi, pensosi e ripetuti giri intorno a tutta quella mercanzia così variopinta e tentatrice.
“Se uno va a Cortona per la festa dell’Assunzione, che è pure la festa del Paese, è sicuro di trovare là tutte le persone che gli stanno a cuore...” (2) asserisce Jeanne la compagna di vita di Gino Severini, descrivendo questa festa che lei ebbe occasione di vedere per la prima volta nel 1935.
“...Nel 1935, pare che ancora come ai tempi dell’infanzia di Gino, nella strada che porta al Duomo, c’era la fiera dei Balocchi e dei Cocciari e, sia per i bambini, sia per le massaie c’era da rifornirsi per tutto l’anno di giocattoli e di roba artigianale. Il gioco preferito dei bambini era la trombetta, e così tutta la giornata le strade di Cortona echeggiavano dei suoni di tromba, fino ad esaurimento, cioè la rottura del giocattolo stesso. Quando Gino a Parigi mi parlava del ricordo di quella festa pareva nel suo ricordo infantile parlare del Paese delle Meraviglie. A quei tempi per un ragazzo povero un giocattolo da mezza lira, aspettato tutto l’anno prendeva un’importanza fatata”.
“Dunque” – mi sono detta leggendo le parole di Jeanne – “non è solo nella memoria dei bambini degli anni ‘50 e ‘60 del secolo scorso, quelli che come me sono stati gli ultimi ad averla vissuta, che la festa dell’Assunzione si è impressa come una giornata che aveva in sé qualcosa di favoloso se come tale era rimasta anche per un nostro concittadino illustre come Gino Severini che, nato nel 1883, bambino lo era stato ben prima che nascesse l’ormai trascorso secolo XX , e al quale, parigino di adozione, la vita da artista nella capitale francese, le conoscenze eccellenti lì acquisite, i successi internazionali, non avevano di certo negato esperienze ben più “colorate” e memorabili!”
Nessuno ha saputo dirmi a quando potesse risalire l’origine di questa tradizione popolare che, in pieno rispetto dello spirito mariano, per rendere onore alla Vergine risciva a creare un’occasione di pura gioia per i bambini, un’ evento che nel ricordo di tutti coloro che l’hanno vissuta faceva somigliare Cortona alla collodiana “Città dei Balocchi”, proprio quella che Severini, a Parigi, descriveva a Jeanne.
Per tutti i piccoli,soprattutto per quelli appartenenti alle classi popolari come me, anche un piccolo “gingillo” scelto autonomamente e dopo lunga riflessione tra i mille messi lì in mostra, appariva comunque il riscatto dai soliti mandarini, noci, cavallucci, sciarpe, cuffie e guanti di lana, scatole di matite, dai quaderni un po’ meno tetri di quelli con le copertine squallidamente nere che, più economici, eravamo di consueto costretti ad usare e da tutte le altre cose utili che, mascherate da regali natalizi, i genitori ci facevano trovare nel sacco portato dal “Ceppo”.
“La “Madonna dei Gingilli” era detta anche “Festa del fischio. Era la festa che noi bambini di campagna amavamo molto perché era una delle poche occasioni in cui salivamo in Cortona con i genitori ed i nonni” ricorda Franca, una coetanea che così come hanno fatto tante e tanti altri amiche e amici, parenti e conoscenti, mi ha inviato una foto del famoso fischio di terracotta variopinta .
Era il suono di quel fischio, monotono e ripetitivo, che insieme a quello delle trombette ricordate da Jeanne Fort Severini si sentiva riecheggiare dalla mattina al pomeriggio inoltrato per ogni angolo della città, una colonna sonora della giornata molto più insistente e piacevolmente assillante dei moderni tormentoni estivi. Quasi sempre a forma di galletto, tra i tanti piccoli oggetti in vendita, era, insieme alle anforette con la caratteristica rosa rossa in rilievo, un “gingillo” più capace di resistere ai giochi maldestri e all’usura del tempo, se, come sembra dalle numerose foto che ho raccolto, nelle case di Cortona se ne conservano ancora così tanti esemplari.
Le modeste condizioni economiche di grandissima parte delle famiglie di allora obbligavano i piccoli avventori, soprattutto quelli di sesso maschile, ad accontentarsi, ma spesso solo come si accetta un premio di consolazione, del piccolo fischio di terracotta quando, in verità, sarebbero stati i giochi di legno o ancor meglio quelli di latta, quelli che grazie alla chiavetta che fungeva da carica si muovevano meccanicamente, ad attirare le bramose attenzioni di gran parte di loro e ad alimentare le loro speranze.
Erano soprattutto, i trenini, le piccole motociclette, gli aereoplanini, i robots, ma anche le pistole o le mitragliatrici, i veri “trofei” a cui tutti aspiravano e che ogni anno, ma quasi sempre inutilmente, ciascuno di loro sperava di riuscire a portarsi a casa. Un bottino purtroppo riservato ai figli di famiglie meno disagiate o a chi si era distinto per promozioni eccellenti o comportamenti esemplari, una “preda” di cui andare orgogliosi e da conservare in un angolo della propria casa per sempre.
Per noi bambine non c’era invece in quelle festa una tentazione altrettanto irresistibile, un canto di sirene altrettanto ammaliatore, di quello emesso dai banchi allestiti, per lo più nella Piazza della Cattedrale, dai cosiddetti “cocciai”, gli artigiani che ancora in quegli anni, tempi in cui la plastica, la celluloide, il vetro infrangibile e l’acciaio inossidabile non avevano ancora soppiantato l’uso quotidiano che nelle famiglie si faceva di catini, stoviglie, pentole,tegami, brocche, orci, ziri di terracotta, in quella giornata riuscivano a smerciare in gran numero questi oggetti di loro produzione.
Quei popolari “maestri del coccio”cortonesi, poi, da veri incantatori, approfittavano di quella giornata dedicata ai bambini per riservare nei loro banchi ampi spazi in cui mettere in bella vista, accanto agli oggetti utili per la casa o per l’agricoltura di normali dimensioni, gli stessi utensili di terracotta in invitanti dimensioni “mignon”.
Erano “gingilli” creati ad hoc per solleticare i desideri delle rappresentanti in erba del sesso femminile. Riproducevano esattamente uguali, ma in miniatura, oltre alle famose pentole, ineguagliabili, al dire degli anziani, per la perfetta cottura di ceci e fagioli, e alle caratteristiche “pignatte”, indispensabili se si volevano rendere eccellenti quegli umili cibi “rifacendoli” nella gustosa versione “all’uccelletto” che si univano, in quell’allettante esposizione di cocci formato giocattolo a tutto il rimanente vasellame di color giallo e verde ornato dalla caratteristica margherita, l’inconfondibile “logo” che in gran parte del mondo, in lungo e in largo ormai significa “coccio di Cortona”, anche i piccoli catini, le catinelle, le zuppiere dello stesso color “giallolino” ma con le irregolari, anche queste tipiche, macchie verdi. Il tutto , naturalmente in provocanti dimensioni ultraridotte, giuste giuste per far sentire le future mamme , giocando, delle vere “massaie”.
Io, già in fibrillazione da diversi giorni, la sera precedente alla festa andavo a dormire dalla nonna che abitava in Via Rinfrena, strada a due passi da Piazza del Duomo, per ricordarle, anche solo con la mia presenza, che la mattina successiva al primo suonare del baritonale campanone del Duomo avremmo dovuto alzarci e “spicciarci” ad uscire senza dilungarsi troppo in faccende domestiche. Ogni minuto di ritardo avrebbe infatti potuto dare l’occasione a qualche altra bambina più mattiniera di me di accaparrarsi l’ultimo di quei raffinati serviti da tè o da caffè di ceramica così bianca e lucida da sembrare porcellana, anche questi di minuscole dimensioni, riproduzioni delle cosiddette “ terraglie all’ uso inglese” che nei secoli precedenti venivano realizzate con gran successo dalla antica e rinomata manifattura di Catrosse, località alle pendici della collina cortonese.
Erano questi ultimi i gingilli più ambiti da noi bambine ma erano anche quelli che più difficilmente riuscivamo ad ottenere in regalo visto che erano i più costosi tra i “coccini” in vendita ed erano anche, purtroppo, quelli che non riuscivano a superare l’ “urto” dei nostri giochi andando regolarmente in frantumi nel giro di 3 o 4 giorni nonostante le cure e le delicatezze che giocando alle “signore” ci sforzavamo di riservare loro
Nessuna che io conosca tra le anziane estimatrici di questi “gioiellini” è infatti riuscita a conservare neanche la più piccola zuccheriera, tazzina, zuppiera, vassoio smerlato. E’ solo con foto di oggetti simili ma in dimensioni “da adulti”, perciò, che posso lasciar immaginare quale fosse la grazia che ai nostri occhi rendeva così desiderabili questi piccoli capolavori degli artisti del coccio nostrani. (3)
Per me quelle graziose stoviglie in miniatura sono rimaste il classico sogno nel cassetto perché ogni anno la nonna, donna molto generosa e piena d’amore per me a cui la vita aveva però insegnato ad essere pratica e risparmiatrice sempre e comunque, riusciva amorevolmente a convincermi: meglio comperare qualcosa di più solido o addirittura indistruttibile con cui giocare senza timore che per incidente o per dispetto qualcuno (sottintendendo furbescamente i miei fratelli o qualche amica invidiosa ) o qualcosa (un loro movimento avventato o un gesto incauto) potessero privarmi del “gingillo” tanto agognato.
E’ quindi grazie a questa logica schiacciante, a cui per non deludere la nonna non avevo cuore di sottrarmi, che sono ancora proprietaria della eroica “broccolina” di finto rame che, superando tutti i traslochi e i maltrattamenti di chi è cresciuto in casa mia dopo di me, sono riuscita a conservare e che, anche se un po’ acciaccata, fa bella mostra di sé insieme a tutti gli altri “cimeli” di famiglia. Con due di quelle brocche, ma in dimensione normali e in vero rame, la nonna andava, più e più volte al giorno, a prender l’acqua alla fontana di Porta Colonia, spesso accompagnata da me che, poco cosciente delle mie reali possibilità, avevo la pretesa accompagnarla per “darle un aiuto” che le rendeva, invece, più incerto e difficoltoso il cammino..
Furono la gratitudine per il suo affetto ed il compiacimento per il “gioiello” che lei, autonomamente, aveva scelto di regalarmi nel corso dell’Annunziata di quell’anno, il 1956, a spingermi ad accettare di buon grado di essere immortalata in una foto che mi ritrae, per la prima ed unica volta nel corso della mia infanzia non imbronciata e, cosa ancora più inaudita, con un monile civettuolo indosso: la indistruttibile collana azzurra di finte perle di plastica, l’unico orpello femminile di cui io sia mai andata fiera.
Purtroppo quella festa da cui era stata tanto favorevolmente colpita anche a una “parigina doc” come Jeanne, non sopravvisse agli effetti del consumismo e, come lei come lei stessa anticipò ai coniugi Quinti che nel 1975 pubblicarono il libro da cui ho tratto queste sue memorie (3): “Ora da qualche anno questa Festa dei Balocchi-Cocci è sempre più squallida e ha lasciato il posto alle botteghe dove si trova di tutto, tutto l’anno e gli oggetti sono più belli con prezzi più alti, e veramente non è più la stessa cosa. Era una festa popolare che sparisce a poco a poco...”
Una gran verità, un pronostico azzeccato in pieno.
Non ci volle poi molto, infatti, perché quella festività religiosa con cui si rendeva onore alla la Madonna creando una piacevole occasione per esaudire gli innocenti desideri dei bambini, divenne il Ferragosto cortonese, kermesse civile pensata per appagare l’edonistico piacere dei palati degli adulti, il modo più facile e, ahimè, più efficace per fare promozione turistica.
“ Ho trentacinque anni, ho trentacinque anni…Le merendine di quand’ero bambino,.. i pomeriggi di Maggio non torneranno più…”, ripeteva con tono sconsolato, quasi disperato, Nanni Moretti in “Palombella rossa” un suo film di un bel po’ di anni fa.
Era il 1989, anche io come il regista-interprete- personaggio del film avevo trentacinque anni ma non riuscii, al momento, a dare un senso a quelle parole, a quell’angoscia, a quello sconforto.
Da allora però, e soprattutto d’estate, quella frase continuava a girarmi in testa. Mi sembrava, chissà perché, un monito rivolto proprio a me, una frase sibillina che io dovevo comprendere sforzandomi di trovare la giusta chiave di interpretazione.
Molto in ritardo e dopo tante disillusioni credo finalmente di aver capito: quelle parole che, chissà perché, mi erano sembrate un velato avvertimento rivolto proprio a me, nascondevano un consiglio (?), un rimprovero (?), un biasimo (?), valido per tutti quei Peter Pan invecchiati, che restii come me a crescere nonostante l’età avanzata, da anni e anni aspettano e sperano pervicacemente, che tornino prima o poi, immutate, le primavere, le estati, le feste piene di allegria e vitalità dell’infanzia e dell’adolescenza e non sanno, ma solo perché non vogliono saperlo, che, ciò che di bello cercano in quelle stagioni della loro vita è, in realtà, il loro essere bambini, è il loro entusiasmo ed il loro modo incantato di guardare il mondo.
Cose bellissime che, come le ghiotte merendine che le mamme ci preparavano nei lunghi e luminoso pomeriggi di maggio, gli spuntini rinfrescanti che ci aiutavano a sopportare la canicola estiva e…la “Madonna dei gingilli” non potranno più tornare.
Sarà bene perciò che gli “eterni nostalgici delle estati che furono”, i miei illustri colleghi, se ne facciano finalmente una ragione e che decidano finalmente di scender giù con me dalle nuvole del rimpianto.
E sarà bene, soprattutto, che imparino a diffidare delle eventuali tardive e sempre deludenti imitazioni: le merendine di quando eravamo bambini e i pomeriggi di maggio non torneranno più..diceva profetico Nanni Moretti circa quaranta anni fa
Ringrazio: Famiglia Muffi , Alberta e Maria Rosa Calosci, Alberta Bernardini Casetti, Gioia Olivastri, Romano Scaramucci, Vanna Scorcucchi, Derna Burbi, Antonella Fazzini e Giulio Lucarini, Anna Moore Valeri, Franca Paci per le foto che mi hanno gentilmente procurato o concesso di pubblicare
—————————————————–
Note:
1) PALOMBELLA ROSSA – regista e interprete Nanni Moretti – anno 1989 – Sacher Film, Nella Banfi-Palmyre Film con la collaborazione della So.Fin.A. e Raiuno
2) SEVERINI E CORTONA” a cura di Aldo e Jolanda Quinti – Stampato per Officina Edizioni Roma dalla Staderini S.p.A Pomezia Luglio 1976;
3) “CATROSSE A CORTONA”, Anna Moore Valeri “Edizioni del Giglio s.a.s.” Borgo San Lorenzo (FI) – 2011
Si sa come Umbria Jazz, in ormai dieci lustri, abbia portato a Perugia e dintorni,…
Convegni, tavole rotonde, degustazioni enogastronomiche, mostre fotografiche e documentali tutto dedicato all'animale simbolo della Valdichiana:…
“E io vado a mangiare dallo zio Ernesto!!” Scommetto che se solo avesse un ospitale…
È uscita la nuova guida di Condé Nast Johansens per una vacanza in una delle…
Nel genere da me e da tanti altri amato c’ è sempre stata la contrapposizione…
TOP TEN Mussolini il capobanda. Perchè dovremmo vergognarci del fascismo di Aldo Cazzullo,…