1) Del “Del Campo dei Miracoli” e del “modo molto maraviglioso” (1) grazie al quale fu ritrovato un bellissimo “pilo”
Che anche a Cortona ci sia un “Campo dei Miracoli” è senz’altro cosa nota a molti e sono sicuramente in molti quelli che già conoscono la sua storia. Poche di queste persone però, ci scommetto, saprebbero dire dov’è.
Eppure basta salire o scendere lungo il tratto di strada che viene comunemente chiamata “la Moreta”, il percorso che seguendo le mura etrusche unisce Porta S. Maria a Porta Colonia, o viceversa, e volgere lo sguardo verso il lato a valle della carreggiata: il “Campo dei miracoli” cortonese è lì al di là del guard-rail che costeggia la strada.
Se però non si ha voglia di uscire fuori porta, basterà affacciarsi da quella terrazza naturale che è Piazza del Duomo e guardare giù, il Campo dei Miracoli è lì, nell’oliveto che vedete di sotto.
“Campo dei Miracoli”: la tradizione popolare ed i contratti notarili rogati dal Medioevo e fin quasi ai tempi nostri hanno definito così quel terreno perché lì, intorno alla metà del 1200, “in modo molto maraviglioso” (1) e talmente “maraviglioso” da far gridare l’intera città al miracolo, era venuto alla luce un bellissimo “pilo” di marmo: un sarcofago che dopo aver riposato per più di mille anni sotto a quella terra, era risalito in superficie e lo aveva fatto in un momento talmente opportuno da sembrare un evento predisposto dalla Provvidenza.
Ed in effetti, per trovar soluzione alla particolare ed urgente esigenza che proprio in quei giorni i fedeli cortonesi avevano da soddisfare, niente poteva essere più adeguato di quel bellissimo sarcofago di marmo delle Alpi Apuane, un manufatto che risaliva alla seconda metà del II secolo dopo Cristo.
Una cosa preziosa allora, preziosissima ancor oggi: quell’urna funebre in cui la mano di un vero artista aveva scolpito una battaglia combattuta da Dioniso contro le Amazzoni, le mitologiche donne guerriere, proprio l’urna che ora fa bella mostra di sé nella prima sala del Museo Diocesano cittadino, è infatti, tuttora, l’unico reperto archeologico che a pieno titolo possa esser definita “opera d’arte” tra quelli a noi giunti della Cortona di un periodo storico di cui sappiamo molto poco.
Un’ opera di gran pregio che, prima di cadere nel più perfetto oblio, già una volta, ben tredici secoli prima, era stata protagonista di un’ altro avvenimento memorabile accaduto nella Cortona ormai da tempo entrata a far parte delle città soggette al potere politico della Città Eterna ed il cortonesi erano già divenuti “cittadini Romani”.
Un contenitore talmente raffinato e prezioso non poteva esser stato commissionato per custodire le spoglie mortali di una persona qualsiasi ma, gli esperti in materia sono in questo concordi, era senz’altro destinato ad una eminente personalità dell’epoca tardo-imperiale.
Forse un nobile? Un magistrato? Qualcuno che si era particolarmente distinto per meriti verso i suoi concittadini? O qualcuno ancora più importante?
L’identificazione di questo personaggio ha in passato sollecitato le ipotesi più fantasiose.
C’è chi ha addirittura indicato in lui il mitico Corito Re di Cortona, altri lo hanno ritenuto Flaminio Console Romano caduto vittima dell’esercito del cartaginese Annibale durante la “Battaglia del Trasimeno”.
Qualcun altro, tenendo finalmente conto dell’epoca storica a cui risale il manufatto, ha indicato in lui Commodo Imperatore e chi invece, come l’eminente studioso di storia locale Alberto Della Cella, guardando l’immagine scolpita sul medaglione dello spigolo, la parte dell’urna dove si era soliti raffigurare il deceduto, ha a suo tempo pensato ad una donna, una nobildonna. Ma non una nobildonna qualsiasi però…
Un personaggio eminente? Un uomo? Una donna?
Marmo di Carrara, battaglia delle Amazzoni.. Indizi utili?
E’ a questo punto inevitabile che ciascuno di noi, spinto dalla curiosità e dalla speranza di trovar una risposta a ciò che peraltro non hanno potuto svelare fior fiore di autentici esperti in materia, desideri avere una conoscenza più approfondita di questo oggetto dalla storia così intrigante.
A chi, umile neofita della storia locale come me, voglia tentare i soddisfare la propria curiosità senza però addentrarsi in un noioso excursus storico infarcito di aride nozioni, elenchi di nomi e date, propongo pecciò di armarsi di un bel po’ di fantasia e di intraprendere con me un virtuale viaggio nel tempo, un’ iperbolica escursione da millennio a millennio che, partendo dalla Cortona medioevale dei giorni in cui avvenne il “maraviglioso” ritrovamento del “pilo” di marmo nel “Campo dei Miracoli” e, andando ancora a ritroso, ci faccia approdare con un sol balzo nella Cortona del II secolo d. C. in un giorno esatto di cui non so dirvi la data ma che, di sicuro, non era un giorno qualsiasi perché era il giorno in cui tutta la città si trovava a partecipare ad un rito collettivo che per la sua spettacolarità oggi definiremmo un “evento”: il funerale di una persona molto importante.
2) Dei buoi che si inginocchiano…e del il prezioso manufatto dopo più di mille anni torna alla luce
All’ora nona del 12 giugno, non sappiamo esattamente se del 1245 , o del 1247 o forse ancora del 1250 perché la “Leggenda del Beato Guido” – alias “La Leggenda Petrella”, il manoscritto trecentesco custodito per secoli nell’antico archivio della famiglia Bourbon di Petrella – non lo specifica, era morto presso il romitorio delle Celle un francescano che già in vita era molto amato e venerato dai cortonesi: il Beato Guido da Porta Colonia.
Era il sant’uomo che in gioventù, prima di donare ai poveri tutti i propri averi e rendersi seguace per la vita del Poverello di Assisi, aveva ospitato nella propria casa il Santo venuto a predicare in città. Una casa, si diceva, di Via delle Fontanelle vicinissima, guarda caso, a quella Porta Colonia che in un terreno delle sue adiacenze custodiva già, anche se all’insaputa di tutti, quell’urna di marmo la cui storia, da allora in poi, si sarebbe legata per sempre al culto del Beato.
Era infatti accaduto che proprio nei giorni successivi alla morte del Beato Guido “…..mentre si andava pensando in qual luogo si dovesse riporre quel santo Corpo” (1) “ecco che venne uno che arava le terre gridando disse: O cortonesi venite a vedere el miraculo. Dicono gli omini: Che è? Response et disse: Io testè arando coi buoi incontenente s’enginochiaro et niuno modo non se vogliono levare..” “..et cavando loro dinante a buoi, trovarono uno sepolcro di marmo et i buoi se levarono. Alora manifestamente videro come Idio per la sepoltura di Sancto Guido avea serbato quello sepolcro e fo portato nel carro co li buoi e posto fo ne la giesa de la Pieve (2)
E fu così che da allora“ … il campo dove fu trovato quell’urna o Pilo di marmo descritto nel Cap. X fino a nostri tempi si chiama Campo dei Miracoli” (3).
In quel momento, e ancora per lungo tempo, il clamore suscitato dalla eccezionalità di un ritrovamento tanto tempestivo fu tale che rimase del tutto in ombra il valore archeologico e artistico del bellissimo manufatto.
Fu solo più di cento anni dopo che finalmente – ce lo racconta Giorgio Vasari nelle sue celeberrime “Vite” – il grande Donatello, un’ artista che della scultura era una vera eccellenza, dette a Filippo Brunelleschi una descrizione della perfezione tecnica e della raffinatezza del sarcofago talmente entusiasmante, che il geniale architetto della cupola del Duomo fiorentino immediatamente “così come gli era, in cappuccio e zoccolo, senza dir dove andasse, si partì da loro a piedi (da Firenze n.d.a.) e si lasciò portare a Cortona a venire ad ammirarlo…..” (4)
Il fatto è che agli inizi del Quattrocento un sarcofago come quello rinvenuto a Cortona era ancora una rarità, una delle pochissime testimonianze archeologiche visibili all’epoca, ed era una delle poche, se non l’unica, che potesse dare testimonianza concreta dello stile dell’arte scultorea, dell’iconografia e della tecnica a cui si rifacevano gli artisti della Roma della età tardo imperiale.
Uno stile da cui poi,insieme a Donatello, anche Brunelleschi, Ghiberti e gran parte degli scultori di quel secolo trassero ispirazione e modelli (5). E non solo loro se, come afferma lo studioso d’arte Divo Savelli, si possono notare evidenti somiglianze tra le decorazioni scolpite nel “pilo” cortonese e le bellissime sculture michelangiolesche che raffigurano il Giorno e la Notte, l’Aurora e il Crepuscolo della Sacrestia Nuova di San Lorenzo.
3) Del perché un’ urna di marmo tanto preziosa riposasse, silente, da un millennio in un campo fuori porta.
Ogni città etrusca e romana era circondata dal “pomerio”, uno spazio sacro e inviolabile che correva lungo le mura della città, sia al loro interno che all’esterno.
In questo territorio i sacerdoti, con speciali riti, confinavano gli spettri, i fantasmi, le larve, i demoni delle malattie e gli spiriti della guerra, della fame, delle pestilenze e tutto ciò che poteva essere ricondotto a situazioni negative per la città e per i suoi abitanti.
Qui non si poteva costruire, non si poteva abitare, non si poteva coltivare, né si poteva passare in armi. L’area era consacrata agli dei che avrebbero dovuto proteggere il recinto così come tutto ciò che si trovava al suo interno.
Fin dal V secolo avanti Cristo una disposizione contenuta nelle XII Tavole,- il corpo di leggi che le norme di diritto pubblico e privato dell’antica Roma, recitava : “Hominem mortuum in urbe ne sepelito neve urito” ossia “In città i morti non devono essere né sepolti né cremati”. E, cosa per noi veramente curiosa, era possibile far eccezione a questa regola solo per i bimbi deceduti in tenerissima età i quali potevano essere tumulati all’interno delle mura delle loro case o in piccolissime stanzette ricavate sotto le gronde di queste secondo la singolare pratica definita “suggrundaria”.
Stessa deroga era applicabile ai colpiti da fulmini i quali potevano esser sepolti nel luogo in cui avevano trovato la morte, purché questo non avesse natura di luogo pubblico.
Per evitare però che i defunti dovessero “dimorare” a troppa distanza dai loro congiunti, era permesso allineare le tombe al di là del “pomerio”, cioè lungo le strade extraurbane che, immediatamente adiacenti a questo, giravano intorno alla città.
Normale, quindi, che la bellissima urna di marmo contenente le spoglie dell’eminente deceduto si trovasse lì nel terreno posto al di là della strada extraurbana che noi oggi chiamiamo “Moreta”, strada evidentemente nata nelle adiacenze di quel pomerio sacro che, continuando a correre lungo il percorso delle mura etrusche, si interrompeva di fronte a ciascuna porta di ingresso alla città e continuava poi, sempre seguendo la cinta muraria, di porta in porta, fino a circondare tutta la Cortona di allora.
4) del perché nel II secolo d.C. un “Funus publicum” potesse coinvolgere un’intera città
Il pregio e l’alto valore artistico del sepolcro a lui destinato lo testimonia: chi doveva riposare per l’eternità in quel sarcofago era di sicuro un’ autorità, un notabile, una persona insomma per cui era d’obbligo organizzare un “funus publicum”, un tipo di funerale per cui era stabilito un rituale ben preciso, quello che i romani avevano mutuato dai nostri progenitori etruschi e che prevedeva il lento sfilare di un “coreografico” corteo funebre che partendo dalla casa del defunto si snodava per le vie del centro abitato e, dopo aver fatto tappa nel “foro” cittadino, proseguiva per il luogo di inumazione esterno alle mura di cinta.
Una cerimonia solenne alla quale, lo prevedeva il protocollo, tutta la popolazione veniva ufficialmente invitata a partecipare da araldi appositamente incaricati di ciò.
Un invito certamente gradito a gran parte della cittadinanza: perché mai disertare una celebrazione che per la sua “pompa” prometteva di essere un evento sicuramente suggestivo?
E, noi cortonesi dell’era moderna riusciremmo a rinunciare all’ allettante occasione di vivere in diretta un evento così spettacolare nella sua drammaticità se ce ne fosse data la possibilità?
Credo proprio di no.
Se infatti, per un caso fortunato, con il nostro viaggio nel passato riuscissimo a trovarci proprio lì, nella Cortona di quell’esatto giorno, è indubbio che ognuno di noi si affannerebbe a trovare, tra la folla di persone assiepate lungo le strade cittadine in attesa del passaggio del feretro, la postazione migliore tra quelle possibili, quella più adatta per ammirare nella sua interezza l’effetto spettacolare dello snodarsi del lungo corteo funebre.
E dal nostro luogo di osservazione, sentiremmo prima di tutto provenire di lontano e diffondersi per la città le melodie grevi e intense prodotte dagli strumenti dei musicisti come sempre in testa alla sfilata. Suoni acuti e grevi di tibie e di tube, perfetti per acuire nell’animo della popolazione il cordoglio doveroso per la morte di un personaggio di tale levatura.
Poi, a poco poco, la musica si farebbe più vicina e vedremmo i musici giungere marciando al passo del suono dei loro strumenti.
Ai suonatori seguirebbero le “preficae”, le donne appositamente remunerate per piangere, lamentarsi ed emettere grida strazianti battendosi il petto e cantando le lodi del defunto e, dietro loro, i ballerini e gli attori ingaggiati per ricordare le movenze e gli atteggiamenti caratteristici del morto e, tra questi ultimi, uno avanzerebbe con la maschera del defunto.
Sarebbe poi la volta dei carri dei figuranti con indosso la maschere di cera degli antenati e, in successione, quelli con le le immagini ritraenti le imprese e gli onori acquisiti dal trapassato.
Poi, finalmente, sopraggiungerebbe il “feretrum”: il carro funebre con i parenti più stretti e dietro a questo sfilerebbero gli uomini vestiti con abiti scuri per sottolineare la loro partecipazione al lutto e le donne con i capelli sciolti in segno di costernazione.
Se poi, da veri fortunati, riuscissimo a farci spazio in mezzo alla moltitudine di persone accalcate nel “foro” cittadino, il centro della vita sociale di ogni città romana, il posto nel quale sorgevano i principali edifici pubblici, si svolgeva il mercato, si trattavano gli affari e si ergevano il Capitolium, il tempio dedicato alle tre divinità Giove Giunone e Minerva, e le “basiliche”, cioè i palazzi in cui si tenevano le udienze e si discutevano le cause davanti ai magistrati- probabilmente l’attuale Piazza Signorelli- potremmo anche noi ascoltare un eminente retore declamare la solenne orazione funebre ricca di lodi per il defunto e, se del caso, per la grandezza della sua famiglia.
Terminato il pomposo panegirico, vedremmo il lungo corteo riprendere il suo cammino per dirigersi al di fuori della cinta urbana verso quel terreno fuori porta, il futuro “Campo dei Miracoli”, dove il rito funebre giungerebbe alla sua conclusione con l’ultima cerimonia prevista dal “funus”, quella ritenuta indispensabile per rendere per sempre il sito di inumazione un luogo consacrato: l’ offerta di cibi ed il banchetto da tenersi di fronte o all’interno della tomba del deceduto “eccellente.
5) dell’identità del misterioso personaggio eminente: di ipotesi in ipotesi tra storia e “fantastoria”
“or resterebbe da indagare a chi ha servito o doveva servire il sarcofago, il quale è di dimensioni un poco superiori alle ordinarie” scrive l’esimio esperto di storia locale Alberto della Cella.
Nonostante qualcuno in passato abbia avuto l’ardire di ipotizzarlo, è pacifico che il nostro personaggio misterioso non possa esser Corito il primo fantomatico re di Cortona: nessuno ha mai potuto dimostrare la sua effettiva esistenza storica che, eventualmente, farebbe risalire il sarcofago alla notte dei tempi.
Né poteva essere il supposto Flaminio console Romano che perse la vita nel corso della “Battaglia del Trasimeno” . Quel combattimento a noi ben noto avvenne infatti il 21 giugno dell’anno 217 a.C. Molto prima, cioè, che i romani iniziassero lo sfruttamento delle cave di Luni estraendone quello che oggi è detto “marmo di Carrara” o “marmo delle Alpi Apuane” e, per di più, ancora molto prima di quel II secolo d.C. nel quale gli esperti situano la creazione del sarcofago.
Le fonti storiche secondo le quali il cadavere decapitato di Flaminio non è stato mai ritrovato hanno probabilmente contribuito ad alimentare ipotesi affascinanti ma, purtroppo, poco fondate storicamente.
Poteva allora essere il Commodo che regnò come Imperatore romano proprio negli ultimi decenni del secondo secolo dopo Cristo (180-192), periodo a cui risale il prezioso sarcofago?
Il Commodo che Joaquin Phoenix impersona nel “Il Gladiatore”, l’imperatore romano che più che per la sua dedizione agli affari di Stato è passato alla storia per la sua frenetica passione per le dispute gladiatorie, l’ esaltato che amava scendere nelle arene vestito da gladiatore per sostenere lui stesso combattimenti per i quali poi pretendeva di esser anche pagato, quello che faceva bandire e giustiziare chiunque osasse insinuare che le sue immancabili vittorie erano dovute a nient’altro che alle armi smussate e agli scudi manomessi usati nei combattimenti che lo vedevano protagonista, quello sessualmente stravagante che abusò di tutte le sue sorelle ecc..ecc..ecc..?
Anche questa ipotesi è purtroppo da scartare: Commodo, l’ “Imperatore gladiatore” cadde infatti vittima di una congiura finendo i suoi giorni assassinato proprio da Narcisso, il campione dei lottatori, il suo stesso istruttore di giochi gladiatori e si dice che sia stato segretamente sepolto nel Mausoleo di Adriano per ordine di Pertinace che gli successe per brevissimo tempo al trono nonostante che il Senato avesse chiesto per lui lo stesso destino inglorioso che solitamente veniva riservato a chi veniva considerato un nemico della patria: esser cioè trascinato con un uncino e poi precipitato nel Tevere.
Ma, scrive ancora Alberto della Cella, dando così un buon motivo alla nostra fantasia di spiccare un volo spericolato, può esser davvero il volto di un uomo quello raffigurato nel medaglione laterale del sarcofago?
“il medaglione nel mezzo del coperchio rappresenta certamente la persona le cui ossa ivi dovevano essere deposte. Ora questa è l’effigie di una persona giovane e con i lineamenti muliebri…” perché “…la testa nel medaglione è sbarbata e liscia , il mento è rotondo, il collo è grassotto. Folti capegli ondulati coprono le orecchie e sono spartiti nel mezzo. Come può essere questa l’immagine di un guerriero o di un imperatore? Piuttosto se vi ha qualche rassomiglianza questa sarebbe con Faustina sorella di Commodo, o Crispina di lui moglie”
Perché però, aggiungo io, dovremmo pensare al nostro sarcofago come contenitore delle spoglie di Annia Aurelia Galeria Lucilla, sorella di Commodo o di quelle della di lui moglie, Bruttia Crispina, se sappiamo che entrambe morirono assassinate a Capri dove erano state esiliate dal loro stesso congiunto?
Sembra, tra l’altro, che il sarcofago di una di esse, Bruttia Crispina, sia stato ritrovato nel 1810 a Capri, dentro la Chiesa di San Costanzo. Conteneva uno scettro con tre cerchi d’oro e lo scheletro della presunta imperatrice vestito di abiti d’oro e d’argento, adornato di gioielli, e con in bocca, un aureo d’oro di Vespasiano, moneta che per tradizione i trapassati dovevano offrire a Caronte per essere traghettati oltre lo Stige.
E allora, ipotesi temeraria per ipotesi temeraria, e facendo ricorso alla tipica incoscienza di chi con poche nozioni pretende di sentirsi un esperto dell’argomento, perché non formulare anche noi una nostra ulteriore teoria ben sapendo quanto questa possa essere azzardata e assurda?
Perciò:
1) partendo dal presupposto che, secondo quanto dicono gli esperti in materia, le immagini dipinte o scolpite nelle pareti delle tombe o dei sarcofagi altro non erano che artistiche allusioni ai tratti caratteristici della personalità del defunto e che gli episodi mitologici o storici che in esse si rappresentavano si riferivano di solito, anche se sotto forma di metafora, alle esperienze, alle imprese, agli onori ricevuti da quest’ultimo;
2) tenendo conto che ai lati dell’urna marmorea ritrovata a Cortona lo scultore incise, e con gran maestria, la già citata battaglia delle Amazzoni, perché non pensare che piuttosto che alla sorella o alla moglie di Commodo, il “bellissimo pilo” non fosse destinato a conservare le spoglie mortali di Marcia, la sua amante?
“Amazzonio”: non era forse questo uno dei soprannomi che erano stati attribuiti a Commodo poiché amava veder ritratta in abiti da Amazzone proprio Marcia, la preferita tra le sue concubine, quella a cui lui tributava gli onori dovuti ad una moglie, a cui addirittura permetteva di assistere agli spettacoli dal trono dell’Imperatore, quella per cui si spinse addirittura a scendere nell’arena vestito da Amazzone?
Marcia Aurelia Demetriade, la liberta greca probabilmente di fede cristiana, bella, intelligente e scaltra, aveva un tale ascendente su Commodo da riuscire ad influenzare anche la politica imperiale. E sembra che sia dovuta a lei la disposizione grazie alla quale durante il regno dell’Imperatore Gladiatore” furono interrotte le persecuzioni dei seguaci del Cristianesimo.
Un amore tanto profondo non impedì però a Commodo di far inserire la propria concubina nella lista della persone da uccidere nel giorno immediatamente seguente quando questa cercò di convincerlo, giungendo ad implorarlo disperatamente, di riconsiderare una decisione che secondo Marcia i romani avrebbero considerato tanto empia e scellerata da indurli a ribellarsi, quella da lui assunta di partecipare alle celebrazioni in onore di Giano indossando l’armatura da gladiatore, anziché la tunica porporata simbolo dell’Impero e per di più, di far ciò partendo dalla caserma dei gladiatori anziché dal Palazzo imperiale.
Marcia l’Amazzone, da vera guerriera, riuscì invece ad evitare la propria morte organizzando nella stessa nottata la congiura che, come già sappiamo, pose fine ai giorni di Commodo. Era il 31 dicembre dell’anno 192 d.C.
Passarono solo pochissimi mesi, però, e anche Marcia morì assassinata per ordine di Didio Giuliano, l’imperatore che si proclamò vendicatore di Commodo.
Perciò, benché ci dispiaccia immensamente ammetterlo, anche quest’ultima teoria, la nostra, si dimostra nient’altro che un esercizio di pura fantasia, un’idea allettante ma illusoria: riterreste possibile, infatti, che a Cortona, un città satellite dello Stato Romano, si potessero tributare onori alla salma di una persona talmente invisa all’Imperatore in carica? Improbabile.
E allora, dichiarandoci momentaneamente sconfitti ci auguriamo che prima o poi il semplice caso o qualche altro evento prodigioso metta in grado chi di storia veramente è esperto di poter avanzare ipotesi più scientificamente dimostrabili
Se siamo stati irriverenti nei confronti di questo importante reperto archeologico lo abbiamo fatto per avvicinarci a lui in modo “soft” per conoscerlo senza considerarlo un freddo e distante oggetto da museo, un noioso argomento per eruditi.
Lo abbiamo fatto per restituirgli una vita “vera” che anche noi profani di storia potessimo immaginare, e riuscire così ad amarlo come un bene prezioso per la nostra comunità e, di conseguenza, a rispettarlo di più.
Note:
1) Giacomo LAURO : “HISTORIA DI CORTONA” manoscritto n. 22, 1639
2) LA LEGGENDA DEL BEATO GUIDO – Tipografia Emilio Alari- Cortona 1900
3) Abate Domenico TARTAGLINI : “NUOVA DESCRIZZIONE DELL’ANTICHISSIMA CITTA’ DI CORTONA” Perugia p’ l Costantini M.D.CC. Pag 84
4) Giorgio VASARI :“LE VITE DEI Più ECCELLENTI PITTORI, SCULTORI, ARCHITETTORI”
5) Eleonora BELLI: “RESURREZIONE DALL’ANTICO: IL SARCOFAGO ROMANO DEL DUOMO DI CORTONA E LA SCULTURA DEL PRIMO QUATTROCENTO”
6) Alberto DELLA CELLA: “CORTONA ANTICA” Tipografia sociale 1900 Cortona