In occasione della Giornata Mondiale contro la violenza sulle donne, che si celebra oggi, ritengo utile sottopporre a voi lettori una serie di numeri, dati, fatti e considerazioni che credo possano aiutare ad andare oltre le tante retoriche e iniziative usa e getta divenute ormai abituali e, sopratutto, a ricordarsi di questo tema sempre e non solo oggi.
Prima di tutto va detto che la violenza sulle donne è parte del più ampio insieme delle violenze di genere: atti diretti contro una persona a causa del suo genere, della sua identità o della sua espressione. Può provocare un danno fisico, sessuale, emotivo o psicologico, o una perdita economica alla vittima.
La violenza di genere è considerata una forma di discriminazione e una violazione delle libertà fondamentali della vittima e comprende la violenza nelle relazioni strette, la violenza sessuale (compresi lo stupro, l’aggressione sessuale e le molestie sessuali), la tratta di esseri umani, la schiavitù e varie forme di pratiche dannose, quali i matrimoni forzati, la mutilazione genitale femminile e i cosiddetti “reati d’onore”. Questo quanto riportato nella Direttiva europea del 2012.
In base ai dati forniti dall’Istat sono 6 milioni e 788 mila le donne italiane che, nel corso della loro vita, hanno subito almeno una volta violenza. Una cifra comunque parziale, che evidenzia solo la punta di un iceberg e nasconde sotto di sé un mondo sommerso, sconosciuto e irraggiungibile. La ricerca si ferma al 2013, in quanto risulterebbe troppo costosa un’elaborazione per dati annuali. Inoltre, ad oggi le banche dati dei vari organismi, che a vario titolo operano a contatto con donne che subiscono violenza, non comunicano tra loro. Non sappiamo dunque se, negli ultimi due anni, la violenza sulle donne è in calo, ma possiamo sicuramente constatare che esiste. La violenza di genere è stata riconosciuta come violazione dei diritti umani nel 1993 e da quel momento molte convezioni sono state formulate dagli organismi sovranazionali.
Nonostante ciò non riusciamo a arginare il fenomeno, a porre fine a questo “olocausto” né legiferando né educando.
Molte le motivazioni per cui questo fenomeno continua a persistere. Una di esse trova la sua origine dai meccanismi economici: quando il capitalismo necessità di alta produzione le donne vengono inserite nel mercato del lavoro, con una conseguente crisi di “dominio” da parte dell’uomo che vede nell’emancipazione economica e sociale della donna la rottura degli schemi tradizionali. Viceversa, quando ci troviamo di fronte a una crisi è ben più facile licenziare una donna piuttosto che un uomo. Lo stipendio della donna, nell’immaginario collettivo, non è indispensabile ed è preferibile avere una madre casalinga, angelo del focolare, da dominare. Sempre più relegate al lavoro di cura o costrette a conciliare il lavoro dentro e fuori casa le donne finiscono per annullarsi, diventando prigioniere della loro stessa famiglia. Della violenza delle donne bisogna parlarne anche come fenomeno sociale. Una donna non indipendente economicamente non può ribellarsi, non ha gli strumenti per capire dove andare e diventa succube di colui che le dà da vivere. Non dimentichiamoci, inoltre, che l’essere nate e cresciute in un paese cattolico con una forte dominanza del pensiero maschilista non aiuta il riscatto sociale e culturale necessario. A mio avviso, inoltre, la violenza di genere e il suo utilizzo in chiave politica serve per dissuadere le donne a partecipare alla vita pubblica. La violenza non si esprime mai tramite raptus o gesto incontrollato, ma ha bensì origine e funzione sociale e politica. La subalternità della donne è sicuramente qualcosa di prezioso che va preservato e tutelato. Non mancano casi di donne al potere, ma ci vengono presentate come eccezioni dalla retorica dominante e non come modelli da seguire.
Grande responsabilità è sicuramente dei media italiani. Analizzando il linguaggio dei giornalisti italiani si nota l’emergere di elementi sessisti. E’ ormai abitudine che il femminicidio venga descritto usando termini coloriti e con abbondanza di dettagli, relativi spesso anche alla vita privata della vittima, come per cercare una giustificazione alla violenza subita. E’ tipica la ricerca di una soluzione affrettata del caso, che suona spesso una scusante: raptus di gelosia, motivi passionali o risultato di una relazione morbosa. Il sessismo emerge peraltro anche negli articoli di cronaca rosa, dove si usano battute o dettagli della vita personale per delegittimare una donna “in carriera”, come avvenuto alla Ministra Madia, fotografata mentre mangiava un gelato con il titolo dell’articolo che giocava con le parole al fine di creare allusioni sessuali. La violenza dei media non finisce qui: le pubblicità che ci vengono proposte e imposte hanno spesso uno sfondo sessista e innescano meccanismi mentali che in un certo senso finiscono per legittimare la violenza. Riconoscere tale elemento è sempre più difficile e si arriva a una sorta di assuefazione a immagini che ci passano sott’occhio di continuo. Basterebbe soffermarsi con sguardo critico di fronte alle pubblicità o a certe tipologie di trasmissioni TV per destrutturare le immagini, compiendo così una analisi oggettiva. La rappresentazione delle donne nella tv italiana è un tema di grande rilievo. Vengono presentate come elementi “di secondo piano” o corredo, oppure con il volto coperto o in parte nascosto. A volte le si confina negli spazi “privati”, nella vita domestica, con una rappresentazione che punta a creare (o anzi a ri-creare) il modello dell’angelo del focolare. Con uno schema mentale che sembra opposto ma finisce per essere complementare le donne sempre più spesso sono rappresentate totalmente nude o in parte, senza creare linee di confine tra quello che un uomo vede e quello che può immaginare. Spesso il loro corpo è sfruttato senza nesso logico con il prodotto pubblicizzato e autorizza nell’uomo un senso di dominio innescando nella donna un senso di inferiorità rispetto ai modelli proposti e il ‘dovere’ di essere sempre perfette: trucco, capelli in ordine e look mondano. Certamente anche questo tipo di rappresentazione, ben più subdola dell’immagini di sottomissione, è una violenza che possiamo definire simbolica. Negli ultimi tempi sta poi cambiando anche l’iconografia della donna anziana: giovanile, con look sbarazzini e senza capelli bianchi. Alcune indagini evidenziano un legame tra questa raffigurazione e un abuso di chirurgia estetica, soprattutto dopo i 50 anni. Loredana Lipperini scriveva che il nostro “non è un Paese per vecchie”: anche questa è una violenza, perché si instaura una sorta di diritto, che poi si tramuta in dovere: non invecchiare. Non dobbiamo arrenderci di fronte a tutto questo.
La comunicazione si può cambiare e può diventare strumento importante.
Possiamo dunque intervenire in diversi modi:
• educando e informando. Quando UDI lanciò la campagna “immagini amiche”, io ero la Presidente della sezione aretina. Mi sono ritrovata numerose volte a dover intervenire all’interno di scuole per spiegare la campagna e soprattutto il suo obiettivo. Ogni volta che facevo scorrere le immagini “nemiche” e le spiegavo gli studenti e le studentesse mi guardavano allibiti, e un po’ preoccupati; dalle loro domande percepii rammarico e tristezza soprattutto perché si sentivano utilizzati: le ragazze come giocattoli, i ragazzi come animali sessuali. Credo che da questi incontri e confronti possa nascere in loro una diversa consapevolezza.
• resistendo. Secondo me le donne dovrebbero reagire. Negli ultimi anni sono state lanciate molte campagne per boicottare determinati prodotti che usano una pubblicità violenta. Se divenisse una pratica diffusa gli addetti alla comunicazione starebbero più attenti al messaggio che mandano; a una azienda non fa mai piacere ricevere questo tipo di contro-pubblicità.
• sensibilizzando con lo stesso linguaggio. Sono state molte le pubblicità realizzate per contrastare la violenza. Il linguaggio utilizzato è lo stesso, cioè l’immagine, ma cambiano radicalmente contenuti e messaggi. La donna è messa in primo piano, spesso con il volto coperto da lividi, l’uomo c’è, si evince, ma non si vede. La destinataria è la donna, è lei che deve essere protagonista, è lei che deve essere la parte attiva. Grande slancio emotivo poi per gli uomini è il messaggio paternalista e moralista che gioca sulle ambiguità del nostro Paese.
• legiferando. In Italia non esiste una legge per bloccare questo tipo di immagini, ma prendendo spunto da altri Stati questo potrebbe essere attuabile. In Austria, oltre a un organismo di autocontrollo, c’è una “Legge per il trattamento paritario” che stabilisce che “non si possono usare parti nude del corpo femminile per pubblicizzare prodotti che non siano strettamente collegate” come ad esempio l’intimo. In Belgio, vigilano due autorità una per la lingua francese e una per la lingua fiamminga. La Legge richiede “una particolare attenzione ai messaggi dove si usa il corpo umano senza alcun legame oggettivo e soggettivo con il prodotto commercializzato”. In Francia si dedica un intero capitolo agli stereotipi e si trova scritto che “la pubblicità non può ridurre la persona, in particolare la donna, a un oggetto”. Riferimento al genere si fa anche in Ungheria, Irlanda e Germania. La legislazione più avanzata è quella svedese che proibisce in maniera esplicita la visione vecchio stile dei ruoli e si condannano gli stereotipi. In Gran Bretagna ci sono tre enti predisposti al controllo preventivo sui messaggi trasmessi. Un discorso a parte meriterebbe la legislazione spagnola, la pubblicità sessista è illegale e la proibizione è inserita all’interno del decreto contro la Violenza sulle Donne. Dopo questa breve carrellata europea si capisce la necessità di avere un controllo nazionale e che urge modificare l’IAP, spesso inutile per la mancanza di strumenti normativi.