Oggi è il centenario dell’entrata in guerra da parte dell’Italia nel primo grande conflitto mondiale. Lungo tutto lo stivale ci saranno festeggiamenti, per ricordare la nostra guerra vinta, e commemorazioni, ricordando i tanti soldati morti per la patria. A distanza di un secolo sono varie le testimonianze, i racconti e le rappresentazioni di cosa è stata davvero la Grande Guerra. Morte e sacrificio di 24 milioni di vite umane: prima di tutto questo è stato, un massacro generazionale che ha visto immolata un’intera generazione; e più che studiarla sui libri di storia, è opportuno riviverla tra le pagine di chi l’ha combattuta, tra le righe delle lettere sgrammaticate dei soldati, tra le trincee e i reperti bellici.
Emilio Lussu, ufficiale della Brigata Sassari, in Un anno sull’altipiano, pubblicato nel 1938, ci racconta la storia di ragazzi comuni, spesso analfabeti, catapultati al fronte senza sapere il perché, senza conoscere gli ideali per cui erano chiamati a combattere; narra con semplicità e talvolta ironia, cosa è stato quell’anno trascorso sull’altipiano d’Asiago che, pagina dopo pagina e giorno dopo giorno, pareva sempre di più una nuova vittoria di Pirro dopo duemila anni. C’è un’aspra denuncia nei confronti dei generali, indifferenti di fronte alla morte di migliaia di soldati ma desiderosi di gloria e trionfo; nei confronti delle istituzioni e di chi promise vittoria e portò morte e dolore.
Vent’anni dopo è la volta di Mario Monicelli che con il film La grande guerra cerca ancora di narrare cosa stava dietro a cannoni e baionette, questa volta in chiave ironica. Monicelli prescinde dall’opera di propaganda voluta dal Fascismo, e non solo, che mirava a ritrarre la Grande Guerra come una guerra giusta e combattuta da soldati valorosi ed eroici disposti a sacrificarsi per la patria. Nel film c’è l’esaltazione di un sentimento nazionale, la volontà di combattere insieme per un ideale e l’obbedire alle istituzioni, sì; ma è anche sottolineata l’assurdità del conflitto, la rassegnazione e il fanatismo. Emblematica la scena finale: i due protagonisti accettano di essere fucilati pur di non tradire la patria, ma il loro sacrificio non verrà mai riconosciuto da nessuno. L’intero film risulta così essere una grande narrazione straniata.
Pochi mesi fa, invece, è stato il turno di Aldo Cazzullo che nel libro La guerra dei nostri nonni ha narrato la storia delle nostre famiglie, un’antologia di Spoon River dei giorni nostri, per far sì che niente vada perduto. Cazzullo raccoglie memorie di soldati in trincea, di decimazioni, di persone che non hanno avuto neppure una degna sepoltura o addirittura i cui corpi non non sono stati riconosciuti dai familiari. Ci dice che i soldati, in fin dei conti, erano tutti uguali, italiani quanto austro-ungarici; tant’è che, essendo le trincee avversarie a pochi passi l’una dall’altra, i soldati, se pur in lotta tra loro, stabilivano una sorta di legame empatico, arrivando a scambiarsi sigarette e scatolette di cibo. La Grande Guerra fu una carneficina senza precedenti, i cui veri responsabili furono coloro che non fecero niente per fermarla. Inizialmente si pensava ad un conflitto che durasse al massimo una settimana. Poi le settimane diventarono anni e gli anni diventarono quattro. Aldilà delle ragioni di egemonia politica ed economica, la Grande Guerra fu un’atrocità permessa soprattutto da intellettuali e uomini di cultura, che vedevano nella guerra l’opportunità di fare igiene del mondo. Rifiutando il passato e tutti i valori ad esso connesso, ambivano ad un mondo nuovo, e la guerra era il miglior modo di fare tabula rasa.
Ne sono prova gli arazzi dell’artista Depero in cui arcobaleni e fuochi d’artificio spuntano fuori da cannoni andando a modellare, nell’opera, un’idea di festa inaudita. Dopotutto anche Depero aveva in sé un senso di umanità: voleva rendere il mondo migliore per un bene comune, portando nuovi ideali ed innovazioni; e come lui tutti gli altri futuristi. Quella che mancava piuttosto era quell’umanità concentrata sul singolo, sull’individuo. Ogni cadavere lascia dietro di sé una scia di tristezza e malinconia; i cadaveri diventano migliaia e della guerra rimane un amaro ricordo. A distanza di un secolo, altre guerre ci sono state, e ignara, l’intera umanità, ha permesso che queste si perpetuassero in un circolo vizioso senza fine. Per portare pace ci serviamo della guerra, per salvare popolazioni oppresse sganciamo bombe sui villaggi dei presunti responsabili. Due conflitti mondiali, un terzo non combattuto che va sotto il nome di Guerra Fredda, il Vietnam, l’Afghanistan, la guerra del Golfo, la Serbia e le stragi dei bosniaci, e tante altre atrocità, non hanno insegnato nulla. Oggi, nel 2015, ancora dobbiamo fare i conti con i più assurdi conflitti, economici, religiosi o di natura politica. L’umanità ne risente e l’ambiente pure. Che sia una peculiare indole dell’uomo, quella di voler sempre guerreggiare? Per tutte le guerre e i conflitti, passati e futuri, ci sarà sempre e comunque un comune denominatore: la strage e l’annichilimento dell’umanità.
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