Quando la Zanicchi era rossa di capelli e d’intenti

Quando il nostro nemico ideale (il musicologo con la puzza sotto il naso) dice che negli anni Settanta era tutto diverso, forse ha ragione. Mi spiego: era diverso l’atteggiamento che avevano le casi discografiche nel produrre i diversi artisti. Vuoi per una (improbabile) fiducia nel futuro e nei giovani, vuoi (più credibilmente) per gli incredibili guadagni che si ricavavano dalla vendita dei dischi, all’epoca non funestata dalla pirateria (o per lo meno non come adesso), gli artisti più quotati avevano una certa libertà, per cui si potevano permettere di incidere anche dischi non necessariamente commerciali, magari in cambio di uno o due 33 giri più “facili”.

Il potente Berry Gordy, patron della Motown, lasciò a Marvin Gaye, dopo decine e decine di singoli da classifica, la possibilità di registrare una pietra miliare come What’s going on (1971), aprendo la strada ad una incredibile serie di album, ugualmente “indipendenti”, di Stevie Wonder (ne riparleremo, spero nel prossimo post). Lou Reed tirò fuori dal cilindro, quattro anni dopo, una perla dimenticata come Metal machine music, praticamente il primo esempio di industrial, all’epoca ignorato e oggi rivalutato. E nel belpaese? Non ci crederete, ma Iva Zanicchi – sì, lei – vendette più di un milione di copie con le canzoni di Mikis Theodorakis, noto musicista greco, in esilio a causa della sua opposizione alla dittatura dei colonnelli, roba non certo etichettabile come “commerciale”. Nicola di Bari incise un intero album di brani di Luigi Tenco.
Insomma si sperimentava, ma 1) c’erano i soldi per farlo e 2) spesso dischi ritenuti “invendibili” alla fine avevano un gran riscontro. Oggi i magri guadagni (meritati, spesso, vista la miopia che caratterizza i produttori) delle grandi case portano ad escludere a priori qualsiasi cosa appaia ‘non mainstream’, a meno che l’autorità dell’artista non la renda fattibile (in altre parole: Battiato può pure pubblicare gorgheggi sufi, perché è “garantito”, altri artisti no).
Lasciamo ogni speranza allora? Non credo. La tecnologia rende possibile registrare e produrre musica, anche di qualità, con poca spesa. La distribuzione può essere fatta attraverso i siti di condivisione senza spendere o comunque investendo piccolissime somme. Certo non si ha, seguendo questi canali, quella potenza comunicativa che si aveva un tempo, o meglio se ne ha una diversa. Ma questo è un altro discorso: non penso si possa più intendere la musica pop come un tempo. Come per la televisione, oggi non esistono più mezzi diffusivi che interessino tutti, ma migliaia di offerte personalizzate. Se mi interessa la musica folk, me la scarico da solo, non aspetto che la radio trasmetta Woody Guthrie (anche perché sarebbe molto difficile). Stiamo assistendo ad una vera rivoluzione copernicana, in cui non si ascolta passivamente quello che offre il mercato musicale, ma ce ne creiamo uno attivamente. È il progresso, amici.

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Rumours (Fleetwood Mac, 1977)
Come trasformare un terremoto (affettivo, lavorativo e sentimentale) in un capolavoro. Quando a metà anni Settanta i Fleetwood Mac si rinnovarono, accogliendo nelle proprie file Christine McVie (moglie del bassista, John McVie) e la coppia Lindsey Buckingham-Stevie Nicks (chitarrista lui, cantautrice lei), ottennero d’immediato un discreto successo con il bell’album omonimo (ascoltatevi Landslide, di recente reinterpretata dalle Dixie Chicks). Ma l’incanto si dissolse con rapidità: in breve tempo McVie e la moglie si separarono, e lo stesso fecero Buckingham e Nicks, nel ludibrio dei paparazzi e della stampa specializzata, che pubblicava di giorno in giorno aggiornamenti velenosi sui motivi della crisi delle due coppie. Il gruppo fu sull’orlo dello scioglimento, quando si decise di andare avanti lo stesso e concentrare tutte le energie sul nuovo disco, che fu ironicamente chiamato “Rumours” (pettegolezzi). E sapete cosa? Quest’album fu uno dei migliori di tutti gli anni Settanta. Rock di qualità (meglio dire “easy listening”, o “soft rock”, insomma qualche chitarra ma nessun intento rivoluzionario), brani d’impatto (tra cui Dreams, a mio parere uno dei migliori brani rock di sempre e Go your own way, in cui Buckingham augura all’ex Nicks di andarsene… da un’altra parte), ottimi arrangiamenti e cura nella qualità di registrazione. La ricetta per il successo, insomma, e le vendite lo confermarono. Tutt’ora tra i dischi più venduti di sempre (40 milioni di copie al mondo, due o tre anni fa, ma la cifra cresce di anno in anno), Rumours permise ai Fleetwood di mantenersi in attività per almeno altri dieci anni, e di pubblicare altri tre dischi che, messi insieme, non fanno questo.

+ (Ed Sheeran, 2012)
Questo cantautore roscio è giovanissimo (vent’anni!) e viene dall’Inghilterra. E’ il suo disco d’esordio, e la sua freschezza lo conferma. Tentativo di sintesi tra un cantautorato folk minimalista e qualche strizzata d’occhi al pop contemporaneo, plus è un album godibile e lascia presagire interessanti sviluppi. In pratica un Bruno Mars meno berciato e lo-fi. Da ascoltare il singolo trainante, The A Team.

Le voyage dans la lune (Air, 2012)
Fresco di stampa, questo ellepì del duo elettronico francese si propone come la colonna sonora del celebre cortometraggio fantastico di George Meliès del 1902, celebrato di recente dal pluripremiato Hugo Cabret di Martin Scorsese. Musica eterea, più new age che da dancefloor, merita un ascolto o due.

Alessandro Ferri

Quando non si deprime, dimostra doti da intrattenitore e intellettuale della Magna Grecia. Si consola delle abituali sconfitte ascoltando quintali di musica.

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Alessandro Ferri

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