In questo post vi tiro fuori un terzo assioma, che posso esprimere così: III) Anche la canzone più bella di un dato artista o gruppo, dopo decine e decine di ascolti, può diventare insopportabile, e spingerci ad evitarla. Si tratta di quello che chiamo solitamente “effetto Gioconda“. Avete presente la Gioconda di Leonardo Da Vinci? Il quadro più famoso di tutti i tempi, riprodotto, commentato ed esaltato o insultato da tutti ed ovunque. Quando ai tempi del Liceo la nostra professoressa iniziò a parlare della Monna Lisa, un brivido mi scese sulla pelle: “non se ne può più, per favore evitiamola”.
Troppe volte l’avevo vista, troppe volte avevamo sentito parlare del suo ineffabile sorriso. Eppure, a descriverne nel dettaglio le caratteristiche, scoprii che quell’enorme fama che si portava dietro non poteva che essere meritata: si tratta di un vero capolavoro, tanto raffinato studio c’è dietro. Leonardo non era uno stupido, realizzai. Una meraviglia come quella aveva avuto la semplice sfortuna di diventare un simbolo, un trending topic, tanto da spingermi ad odiarla per l’esagerato seguito che si portava dietro.
Lo stesso può accadere con una bella canzone. Pensiamo ad Elton John: un musicista che nei primi anni della sua carriera ha dato vita a dei capolavori assoluti, e che stimo (anzi, confermo che è il mio cantante preferito). Dei suoi primi dischi adoro tutto, arrangiamenti-testi-vocalizzi, meno che un pezzo. Meno Your Song. Sacrilegio! Come faccio a non amare la sua canzone più bella e conosciuta? Un capolavoro di semplicità e grazia, perfetto per qualsiasi amore, da quello adolescenziale ai rimpianti senili. Come posso? Certo che posso, risponderei, perché veramente non se ne può più. Anche se riconosco che è una meraviglia, quando mi spunta fuori nell’iPod, la salto immediatamente, non riuscendo a sopportare la ripetitività di un brano che avremo ascoltato, nei più diversi contesti, milioni di volte.
Penso che ogni artista o gruppo famoso abbia la sua Gioconda: Vita Spericolata o Albachiara per Vasco Rossi, Certe notti per Ligabue, Yesterday per i Beatles, Satisfaction per i Rolling Stones, eccetera eccetera eccetera. Solo il fan senza cervello (tipo quelli Vasco-è-meglio-del-Liga o viceversa) può resistere ai 50 ascolti di una canzone. Di solito interviene prima la Gioconda, che almeno ci spinge alla varietà d’ascolto.
Poi magari capita che una notte, la luna fuori dalla finestra, metti il casuale e una vocina nasale miagola “How many roads must a man walk down, before you can call him a man?”. Una forza irresistibile ti impedisce di premere avanti, e l’ascolti tutta, con un sorriso a metà strada tra il felice e il malinconico. Come Monna Lisa.
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Tapestry (Carole King, 1971)
Un vero caposaldo del folk melodico anni Settanta, Tapestry raccolse un successo incredibile ai tempi in cui uscì. Carole King era, fino ad allora, una rinomata autrice, avendo composto con l’ormai ex marito Gerry Goffin una serie di singoli andati a ruba (li trovate qui). Dopo il divorzio, fu l’amico James Taylor a spingerla a scrivere un disco a proprio nome, riproponendo anche qualcosa del periodo Goffin-King. I venticinquemilionidicopie che seguirono in effetti gli dettero ragione, e fecero giustizia alla qualità del disco: vi suggerisco di ascoltare I feel the earth move, It’s too late, Way over yonder, Will you still love me tomorrow, You’ve got a friend (che Taylor portò al successo internazionale), Where you lead e (You make me feel like a) Natural woman, di cui Aretha Franklin avrebbe dato un’interpretazione da 10 e lode.
Bob Dylan (Bob Dylan, 1962)
Oggi che ricorre la Festa del Papà – il modo 2.0 di dire che è San Giuseppe e che dovremmo dunque far girare l’economia contraccambiando chi, a suo tempo, ci ha regalato mezzo patrimonio genetico – possiamo festeggiare anche un importante anniversario. Il 19 marzo di cinquant’anni fa un giovanotto del Minnesota di nome Robert Zimmermann pubblicò il suo primo disco, usando come titolo il proprio pseudonimo, Bob Dylan. Un disco acerbo, non valido come il successore (che è il fondamentale The freewheelin’, del 1963), ma comunque meritevole di qualche ascolto. Grandi classici del folk con un’impostazione aggressiva che rimanda al primo rock and roll. In pratica ciò che Dylan avrebbe fatto per tutta la carriera: unire tematiche e melodie folk a sonorità rock. Unire mondi alternativi, “tradurre il greco in latino”, come Giotto, il padre della pittura occidentale. Festeggiamo papà Dylan, allora. Magari ci capiterà di incrociarlo in Rugapiana fra qualche mese.