James Taylor e il folk intimista dei Settanta

James Taylor nel 1977, dall’album JT

Sabato scorso ho avuto il piacere di assistere al concerto di James Taylor a Lucca, nella raccolta ambientazione del Teatro del Giglio. James Taylor appartiene a quella schiera di cantautori intimisti che tanto successo ebbero nel corso degli anni ’70, come Carole King, Carly Simon, Joni Mitchell, Paul Simon. La definizione, lo so, è ambigua, e di ciascuno di essi potrei scrivere un intero post (su Paul Simon anche di più). Il loro è un folk melodico, dalle tonalità tenui e dai testi spesso riflessivi e malinconici.

Ascoltatevi, per capirci, il pezzo forte di Taylor, che poi è di Carole King: la famosissima You’ve got a friend. Se hai bisogno, c’è sempre un amico che ti aiuta, inverno-primavera-estate-autunno, basta chiedere. Questo concentrato di buoni sentimenti, accompagnato da chitarre acustiche e arrangiamenti tanto essenziali quanto curati*, vinse due Grammies e vendette uno sfacelo di copie, pur in un’epoca musicalmente contrassegnata dal prog-rock, che puntava al contrario su ricchissime strumentazioni (Keith Emerson, nei concerti, suonava due organi Hammond, un Moog modulare, un piano a coda Bluthner e un clavinet, e i suoi colleghi non erano da meno). Con gli anni Ottanta, e l’avanzare del pop formato MTV, questo genere musicale perse la forza commerciale, e i suoi esponenti si riciclarono in altri ruoli: Paul Simon, ad esempio, inventò la world music, mentre Carly Simon si dedicò alle colonne sonore. E Taylor? Superata una spaventosa depressione e la dipendenza dall’eroina, rimase fedele a sé stesso, portando i gran pezzi degli anni Settanta in concerto, cosa che fa tutt’ora. Ancora nel 2012 ci racconta del dolce Giacomino (Sweet baby James, dedicata al suo nipotino, oggi almeno quarantenne), della Carolina del Nord (Carolina in my mind) o della sua speranza di andare in Messico (Mexico). E lo fa ancora alla grande.

* Assioma II) Una canzone può definirsi “bella” solo quando non perde la sua forza anche con arrangiamento essenziale (solo piano, solo chitarra o addirittura a cappella). Avere un’orchestra sinfonica di accompagnamento serve a poco se la materia di fondo è debole.

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Facciamo un salto nel pop italiano dei primissimi anni ’80.
Il primo album che vi propongo, di recente riedito come triplo cd in occasione del trentennale, è il fortunatissimo Strada Facendo di Claudio Baglioni, del 1981. Registrato in Inghilterra sotto la supervisione di Geoff Westley, rappresenta il tentativo di smarcarsi dalle ‘stupide canzoni d’amore’ che contraddistinguevano il Baglioni del decennio precedente, nei testi come nelle musiche. Comincia qui la fase ermetica del cantautore romano che sfocerà nell’album Oltre di dieci anni dopo. Un concentrato di singoli ben fatti (anche se ormai superati negli arrangiamenti) inframezzati da quattro diverse strofe di un unico brano, ’51 Montesacro: Via, Notti, I vecchi, Fotografie, Le ragazze dell’Est, Buona fortuna, Ora che ho te. La tournée che seguì fu un trionfo, certificato dal live Alè-Oò. Complessivamente un buon disco, sempre che ce la facciate a sopportare un artista che agli inizi era conosciuto come “Agonia”.
All’anno successivo, l’anno del Mundial, appartiene il primo live dei Pooh, Palasport. Per chi non lo sapesse, il gruppo di Piccola Katy ha sempre dato il meglio di sé nelle esibizioni dal vivo, con una serie di effetti scenici degni delle più rinomate star internazionali. Nonostante fossero sulla breccia da almeno dieci anni, aspettarono il 1982 per pubblicare il loro primo live, a quanto pare per l’enorme zelo che impiegarono nella preparazione del disco. I 25 pezzi di questo doppio inquadrano bene la fase europop del gruppo, e lasciano poco spazio ai classiconi per proporre un repertorio più recente, ad esempio Banda nel vento. Il tutto è comunque molto godibile.

Alessandro Ferri

Quando non si deprime, dimostra doti da intrattenitore e intellettuale della Magna Grecia. Si consola delle abituali sconfitte ascoltando quintali di musica.

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Alessandro Ferri

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