Si dice che chi lascia la strada vecchia per quella nuova sa cosa lascia, ma non sa cosa trova. Salto nel vuoto del “nuovo” che per un’ affezionata cronica che in 22 anni ha cambiato 3 case pur rimanendo nella stessa via è decisamente complicato.
Diciamo che non è il nuovo che mi spaventa – spazio per un paio di scarpe nuove si trova sempre nell’armadio – e’ lasciare andare il vecchio che per me è decisamente difficile.
Sarà colpa della mia passione per la storia, della mia memoria fotografica, l’ amore per i film in bianco e nero, per i vestiti vintage e per i mobili ammaccati, ma per me vecchio non è sinonimo di “decrepito”, ma di “caro amico mio adorato”. E non è solo questione di tirchieria e pigrizia come mi accusa il mio compagno “Nuovo è meglio”.
Più una cosa dura nel tempo: amici, cane, fidanzati, più faccio fatica a liberarmene. I ricordi dei giorni felici passati insieme, gli aneddoti divertenti diventano un macigno che mi segue peggio di un’ombra. Il mio attaccamento all’antico non si limita solo agli esseri viventi, ma a qualsiasi oggetto, luogo, cibo che ha la sfortuna di imbattersi nella mia esistenza. Uno dei motivi per cui non riesco a tagliarmi i capelli e liberarmi delle doppie punte.
È difficile dire addio e “buttare”, rottamare e ammettere che è l’ora di andare avanti perché quando lo si fa siamo coscienti di perdere sempre qualcosa.
Come avrei voluto tenere almeno una delle 4 ruote della mia Toyota Corolla violetta metallizzata classe 1995, uno specchietto retrovisoremagari o il freno a mano per ricordarmi degli anni passati insieme tra appostamenti notturni agli ex, lunghe serate musicali, viaggi improbabili, caldo torrido d’estate e brusche frenate salvavita. Piena di vestiti, libri e pensieri, targata Milano, la macchina sprint di mio nonno era diventata la mia seconda casa. Con lei avevo imparato a guidare con le difficoltà che solo le mie amiche cavie e l’istruttore di scuola guida conoscono. Con lei avevo evitato miracolosamente incidenti, un bolide senza ammaccature o quasi. Ogni volta che la portavo dal meccanico mi diceva che di macchine così non ne aveva mai viste e che a suo avviso era ancora perfetta, con lo stupore del mio fidanzato che la considerava un rottame ambulante.
Un mese fa l’ho lasciata andare, ho ceduto a un’ anonima utilitaria color cappuccino, una Panda nuova con aria condizionata e stereo funzionante, ma nulla potrà mai sostituire la Toyotina nel cuore di chi l’ha conosciuta. L’ ho lasciata andare firmando veloce i documenti della rottamazione senza pensare e senza ricordare. Questo dopotutto è l’unico modo che abbiamo per andare avanti, non guardarsi più indietro e tagliare con il passato di netto. I ricordi possono poi riaffiorare, tornare a galla quando il dolore del distacco si fa più lieve per accompagnarci in una nuova avventura. Non si può bloccare le acque di un fiume che scorre dopotutto solo perché ci piace fissarne un punto. Lui continuerà a scorrere e noi abbiamo il compito di trovare un altro scorcio incantato. Non potevo in effetti aggiustare l’aria condizionata, lo stereo, la frizione, l’impianto elettrico, cambiare le ruote, revisionare le bombole del metano, aggiustare la chiusura centralizzata e togliere tutti quegli aghi di pino dal cofano. Ho dovuto trovare uno scorcio diverso, decisamente più alto rispetto all’ aerodinamica Toyota.
” Un occhio sullo specchietto retrovisore e due mani sul volante”
da OGGI MORDO – VALDICHIANA OGGI 4 agosto 2012Guidare mi rilassa, è il momento in cui siamo solo io, il mio bolide dell’anteguerra e la campagna aretina fuori dai finestrini. In macchina io progetto, penso in modo veloce e costruttivo, sto lontano dal mio smartphone per almeno 30 minuti – cosa buona e giusta – e spingendo il piede nell’ acceleratore faccio anche un po’ di step che non guasta mai. C’e un rito che compio tutte le volte quando apro lo sportello della mia Toyota Corolla violetto metallizzato – dopo aver ringraziato gli Dei dell’universo per tenermela ancora in vita dopo 16 anni – posiziono il sedile, accendo la musica, abbasso i finestrini, metto la cintura e guardo nello specchietto. Un po’ per vedere se quelle lentiggini sul naso hanno intenzione di espandersi ancora, ma soprattutto guardo a quanta distanza la macchina dietro ha parcheggiato perché dall’intimità che il mio cofano sembra aver con il retro della macchina davanti talvolta penso di essere una pedina di Tetris.
Dopo aver perso quei 20 minuti standard e essermi fatta venire i muscoli nelle braccia per uscire dal parcheggio – non ho il servosterzo – suscitando ilarità nei passanti, finalmente parto e soltanto uscita dalle strade di città e possibilmente sorpassato l’inceneritore comincio davvero a respirare e a pensare…
…La mia macchina è il mio psicologo, è il mio Yoga quotidiano, senza il rumore piacevole di una radio di sottofondo può diventare decisamente introspettiva e se non fosse per il fatto che va a metano probabilmente costerebbe anche come uno psicologo…
Di solito il viaggio interiore e i castelli in aria durano fino a che non parcheggio di nuovo e di tutti i piani fatti ne resta appena il 20% nella mia mente, perché poi quando mi fermo e spengo il motore è come se si spegnesse anche il motore del mio cervello, e torna l’inerzia. Posiziono di nuovo lo specchietto retrovisore e aspetto le due macchine che mi incastreranno di nuovo. Perché arrivano è solo questione di tempo, ma arrivano.