Sono passati dieci anni da quella domenica sfortunata che ricordo come se fosse ieri. Avevo 23 anni, non avevo ancora sostenuto l’esame di diritto del lavoro ed ero rimasta scioccata dalla morte del Prof. D’Antona e del Prof. Biagi. Ero affascinata dalla criminologia e leggevo qualsiasi cosa riguardasse le Brigate Rosse. In quei giorni scrissi un articolo per l’Etruria su quella tragedia ma che poi decisi di non pubblicare perché penne, più autorevoli della mia, scrissero pagine e pagine su quell’evento sconcertante accaduto in una tranquilla mattina domenicale di un tiepido marzo, in un paesino come tanti della nostra bellissima toscana, in un interregionale semideserto.
Il 2 marzo di dieci anni fa il sovrintendente Petri, assieme ad altri due colleghi, Bruno Fortunato e Giovanni Di Fronzo, all’altezza della stazione di Camucia, controllavano i documenti di due passeggeri. Il collega di Petri, Fortunato, come riportano gli atti ufficiali, racconta così quei momenti terribili: “Verso la terza-quarta vettura io (Fortunato, ndr) e Di Fronzo ci fermammo per identificare una persona, mentre Petri era andato avanti ed era entrato in uno scompartimento” “Ho alzato lo sguardo, e ho visto Petri uscire dallo scompartimento con dei documenti in mano e cominciare a telefonare col cellulare collegato alla sala operativa della questura di Firenze. Poi ho visto un uomo (Galesi, ndr) che si avvicinava e gli puntava una pistola all’altezza della gola. Io e Di Fronzo ci siamo avvicinati di qualche passo e io gli ho fatto “ma che fai, butta quella pistola”. Lui invece ci ha gridato qualcosa come “datemi le armi, consegnatele a lei” (la Lioce, ndr). Io avevo sfilato la mia pistola dalla fondina e la nascondevo dietro lo spigolo di una poltrona. Lei mi è passata accanto senza guardarmi, poi ho capito che puntava alla pistola che Di Fronzo intanto aveva gettato per terra sotto alcuni sedili. Quando lei era appena dietro di me, ho sentito un pizzico all’addome (il colpo sparato da Galesi, ndr). Poi ho sentito qualche altro colpo, ma non so quanti. Emanuele (Petri, ndr) era a terra, io ho alzato la pistola e ho sparato. Galesi è caduto a terra, disteso nel corridoio. A quel punto sento Di Fronzo che mi fa “Bruno, dammi una mano”. Mi sono girato ma non me la sono sentita di fare un’altra cosa (di sparare, ndr). Ho rimesso la pistola nella fondina ho visto l’imputata distesa su una poltrona con una pistola fra le gambe che scarrellava e premeva il grilletto, alcune volte, senza che partisse il colpo. Di Fronzo era dietro di lei, piegato sullo schienale di una poltrona e cercava di bloccarla ma inutilmente perché non arrivava alla pistola. Ho visto la donna che cercava di riarmare l’arma più volte e di sparare verso di me. Dopo ho capito che era l’arma che Di Fronzo aveva gettato sotto i sedili. Gli ho strappato la pistola dalle mani, l’ho data a Di Fronzo e l’ho ammanettata. Poi sono andato a vedere più avanti. Galesi rantolava per terra, Emanuele purtroppo era disteso senza vita.” Il treno si fermò alla stazione di Castiglion Fiorentino dove arrivarono i primi soccorsi per le persone ferite, tra cui Galesi (che morì alcune ore dopo) e l’agente Fortunato che venne poi salvato dopo una lunga operazione chirurgica. Fortunato, purtroppo soltanto di nome, dovette pagarsi, addirittura, di tasca propria le spese legali del processo penale che ne seguì. Non si riprese mai completamente da quella tragedia, arrivando, purtroppo, al suicidio nel 2010. Appena arrestata, la Lioce, si dichiarò prigioniero politico e fu uno shock. Era tanto tempo che non si sentiva più frasi come quella ma di BR, invece, si era risentito parlare di recente. Era una sigla che faceva paura, come si ha paura di fantasmi che riappaiono all’improvviso. Galesi e Lioce risultarono poco dopo essere esponenti di spicco delle Nuove Brigate Rosse e, dalle ricostruzioni e dal materiale rinvenuto sul treno, gli investigatori riuscirono a catturare tutti gli appartenenti dell’organizzazione terroristica responsabile anche degli omicidi di Massimo D’Antona e Marco Biagi, avvenuti nel 1999 e nel 2002. Petri morì per caso, per un terribile caso del destino: quel giorno, infatti, non doveva prestare servizio ma aveva chiesto un cambio turno per assistere un ex collega gravemente malato. La morte del Prof. Biagi, invece, non avvenne per caso, al contrario, fu da molti considerata come una morte quasi annunciata. Il Professore, la sera del 19 marzo 2002, una volta percorso -con la sua amata bicicletta- il tratto di strada tra la stazione ferroviaria di Bologna Centrale e l’abitazione, veniva ucciso brutalmente, di fronte al portone di casa, da un gruppo di brigatisti. Il professore bolognese era docente di diritto del lavoro in diverse università italiane e straniere e, a partire dagli anni novanta, aveva avuto numerosi incarichi governativi come consulente e consigliere di diversi ministeri, lavorando al fianco di governi sia di centrodestra che di centrosinistra. Caratteristica fondamentale e filo conduttore della sua opera, era l’impegno nella comparazione e l’attenzione interdisciplinare coltivata con colleghi di ogni parte del mondo, volta alla promozione della modernizzazione istituzionale e sociale mediante il metodo delle riforme graduali. A Marco Biagi, dopo la morte, è stata intitolata la facoltà di economia dell’Università di Modena e Reggio Emilia, ateneo presso il quale ha insegnato durante gli ultimi anni della sua vita e che è oggi ai primi posti nella graduatoria nazionale delle facoltà d’ambito economico, specialmente per quanto riguarda il mercato del lavoro e le sue dinamiche e anche la fondamentale riforma del lavoro del 2003 porta il suo nome. L’università, in accordo con la famiglia Biagi, dopo la tragica morte, ha inoltre istituito un centro studi ed una fondazione, di fama internazionale, per attuare, promuovere e favorire ricerche e studi scientifici nazionali ed internazionali nel campo del diritto del lavoro e delle relazioni industriali, nonché permettere a giovani studiosi come me di diventare dottori di ricerca ed esperti dell’area giuslavorista.