Una serata con Marco Bellocchio

Una due giorni dedicata interamente all’arte di Marco Bellocchio: questo l’ultimo week-end castiglionese, con la proiezione allo “Spina” di Via Trieste del primo e dell’ultimo film del regista, I pugni in tasca (1965) e Sangue del mio sangue (2015). Alla proiezione del primo, sabato sera, ha partecipato lo stesso autore, che si è prestato ad un’interessante chiacchierata con il pubblico.

Il teatro di Castiglion Fiorentino è piccolo ma accogliente. Le bellissime locandine d’epoca, appese al bar e nel foyer, ricordano che per quasi cent’anni (dal 1911 al 1984) è stato un fondamentale luogo di aggregazione per la comunità castiglionese, che vi assisteva ad opere liriche e a balli mascherati. Poi l’abbandono, come accadde a tanti cinema e teatri italiani. Nel 2015, il Teatro Comunale è stato riaperto, cambiando nome – Mario Spina è stato un tenore castiglionese – e inaugurando una stagione teatrale diretta da Alessandro Benvenuti, grazie alla Fondazione Toscana Spettacolo e alle Officine della Cultura. A partire dal giorno di San Valentino, è stata inaugurata anche una stagione cinematografica, intitolata ironicamente “Non staccare la Spina”, nel corso della quale sono presentati al pubblico i classici restaurati dal laboratorio “Il cinema ritrovato” della Cineteca di Bologna, oltre a documentari e dirette di opere liriche e balletti.

L’evento con Marco Bellocchio è il primo di una serie di “incontri con l’autore” che ci auguriamo possa proseguire in futuro. L’occasione era la presentazione del restauro dei “Pugni in tasca”, pellicola d’esordio del regista piacentino, uscita nelle sale nel 1965. Il film, ha ricordato il regista, scandalizzò il pubblico dell’epoca, raccogliendo un discreto successo internazionale. Bellocchio dovette produrselo in proprio, con un prestito garantito dalla famiglia, perché nessuno avrebbe scommesso su un regista esordiente, per di più su un soggetto così audace.

La trama
Alessandro (Lou Castel) vive in una villa nei pressi di Bobbio (Piacenza) assieme alla madre cieca (Liliana Gerace) e ai fratelli Augusto (Marino Masè), Giulia (Paola Pitagora) e Leone (Pierluigi Troglio). Non si fa mai menzione del padre, ma il ruolo di capofamiglia è assunto da Augusto, che lo fa malvolentieri e spera di potersi spostare in città con la fidanzata Claudia. Alessandro ha una formazione letteraria (tiene improbabili lezioni private) e soffre di attacchi epilettici. È disgustato dalla propria famiglia ed è tormentato da un inconfessabile cupio dissolvi. Giulia prova una passione morbosa nei confronti di Alessandro e di Augusto e non è in grado di immaginare una vita fuori dalla casa in cui vive. Leone, il più piccolo, è affetto da ritardo mentale, pur dimostrando in più occasioni di essere l’unico ad avere un’immagine lucida della situazione folle in cui si trovano i familiari.
Le tendenze distruttive di Alessandro si realizzano quando, accompagnando la madre al cimitero, ferma la macchina nei pressi di uno strapiombo e riesce a farla cadere nel vuoto. Nello spazio di pochi giorni, Leone viene sedato e fatto affogare nella vasca da bagno. Quando Giulia scopre l’accaduto, rimane così scioccata da cadere dalle scale e rimanere paralizzata. Augusto, ignaro dei gesti criminali del fratello e convinto che si tratti di incidenti, decide comunque di abbandonare la famiglia.
Nel villino sono rimasti solo Alessandro e Giulia. Alessandro mette la “Traviata” sul piatto del giradischi, e si muove in una folle danza al ritmo di “Sempre libera”. A quel punto, lo coglie un attacco epilettico. La sorella, ferma nel suo letto, non può aiutarlo.

Nella bella chiacchierata con Simone Emiliani a fine proiezione, il regista ha ricordato che l’idea originale era di affidare il ruolo di Alessandro a Gianni Morandi (che si dimostrò interessato, ma rinunciò su ordine dei suoi agenti… con quella faccia pulita, non avrebbe mai potuto impersonare un freddo omicida!) e quello di Giulia a Raffaella Carrà: i ruoli passarono poi a Lou Castel e Paola Pitagora.

Marco Bellocchio si è dimostrato molto disponibile anche nel rispondere alle domande dei presenti, tra cui chi scrive. Si è parlato dei libri e dei registi che lo hanno ispirato, ma la conclusione è stata perentoria: per quante ispirazioni possa aver avuto, Bellocchio si è sempre rifiutato di riproporre calligraficamente le idee cinematografiche altrui (inquadrature o simili), cercando una strada originale, in cui i classici sono interiorizzati ma non banalmente citati. Del resto, ha ammesso con grande sincerità, molte citazioni e riferimenti individuati dai critici sono nati casualmente, e spesso il regista non ne è neppure al corrente, in quanto gli riescono spontanei. Come a dire, l’arte nasce spesso in modo inconsapevole, e certi messaggi occulti, il più delle volte, appartengono al critico che li scopre, più che all’artista. Nel caso dei “Pugni in tasca” – un po’ come per “Prima della rivoluzione” di Bertolucci – si è parlato di anticipazione del ’68, ma il comportamento di Lou Castel nel film è l’esatto opposto della «fantasia al potere»: è piuttosto un crudo e violento realismo che, anziché uscire di casa, vuole confinarvisi.

Alessandro Ferri

Quando non si deprime, dimostra doti da intrattenitore e intellettuale della Magna Grecia. Si consola delle abituali sconfitte ascoltando quintali di musica.

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