Quella che vi do oggi è una notizia che ne contiene tante: una matrioska di notizie, insomma. George Michael ha pubblicato un nuovo album, un live intitolato Symphonica, a inizio settimana. Mi sembra che la carne al fuoco sia tanta: anzitutto sentir parlare di George Michael per fatti strettamente musicali è già un traguardo, disperso com’era tra le pagine dei tabloid scandalistici e le corsie d’ospedale.
Per i più giovani, Georgios Kyriacos Panayiotou (nato nel 1963) è stato uno dei più singolari personaggi della musica degli anni Ottanta. Già membro di un duo pop di enorme successo – i Wham! –, a partire dal 1987 si costruì una fortunata carriera solista, riunendo in sé una bella presenza, indiscutibili doti interpretative e una certa tendenza provocatrice che gli assicurò la permanenza nello star system fino all’incirca alla fine del millennio. L’incriminazione per l’adescamento di un poliziotto in borghese in un bagno pubblico – il nostro era omosessuale, ma per tutelarsi l’immagine di idolo delle donne l’aveva nascosto – ha assestato un colpo decisivo sulla sua carriera, nonostante un brillante video musicale di risposta. Da allora, si parla di GM molto più per i casini che combina che per quello che canta, e parte del pubblico odierno neanche lo ricorda.
Il disco arrivò centocinquantesimo su Billboard (la classifica americana). Pochino, insomma: l’album precedente, Older (1996), aveva raggiunto la sesta posizione. Un tracollo verticale, insomma, che evidentemente suggerì al nostro di cambiare rotta. Peccato, perché a quel punto, con un’omosessualità dichiarata e le borse sotto gli occhi, era difficile recuperare il pubblico di prima. Io avrei scelto per la strada del cantante confidenziale, magari gigione (alla Iglesias), ma senza rinunciare al gusto e alla qualità. Se lo fa Bublé, che è un ragazzino, perché non può farlo lui?
Comunque la nuttata è passata e il 14 marzo è uscito Symphonica, sintesi della tournée che lo vide all’opera tra il 2011 e il 2012 (album non ancora presente su Deezer e Spotify, ma su Cubomusica). Quel tour, come chiarisce il nome, lo vedeva esibirsi con l’accompagnamento di una grande orchestra sinfonica su un repertorio di brani propri e altrui, ripercorrendo le orme delle canzoni di fine millennio di anni addietro. E la notizia è che è un gran bel lavoro: del resto l’ha prodotto Phil Ramone (ultima produzione prima della morte), uno che si è portato a casa 14 Grammies, il primo per Getz/Gilberto nel 1965 (!). Questa grande bellezza, da bravi italiani, ci ispira tanta antipatia: antipatia per il George Michael che si buttava sulla dance come una Veronica Ciccone qualsiasi, anziché orientarsi su progetti di questo tipo. Questo è quello che sai fare, e ti riesce pure bene. Perché fare altro?
Credo che anche George sia arrivato a questa conclusione, altrimenti non si spiegherebbe la scelta di includere nella scaletta dell’album un pezzo come Idol.
[Antefatto]
Marzo 1976. La stella della musica ha poco tempo da perdere: deve seguire l’estenuante missaggio del disco dal vivo e, negli stessi giorni produrre una nuova raccolta. Il live era l’atto conclusivo di un contratto che l’aveva portato dai pianobar alla fama internazionale – nonostante la strangolante regola dei due dischi all’anno – mentre l’altra raccolta avrebbe battezzato la sua personale etichetta, chiamata Rocket Music in onore di un suo celebre pezzo. Dopo una sequenza di album giunti immancabilmente al numero uno, non sarà difficile ripetere l’exploit. La stella vuole aggiungere un carico significativo: pubblicherà un doppio. Due vinili, costosi come due vinili. “Il pubblico mi ama, non si farà problemi”. È giunta l’ora per uscire allo scoperto: poco prima dell’uscita del disco, illuminerà il suo lato oscuro. Si dichiarerà bisessuale, per ora. “Il pubblico mi ama, non si farà problemi”.
Sono già le ore piccole di un giorno di lavoro in studio quando la stella, intenta in uno zapping tanto svogliato quanto furioso, legge distrattamente le labbra degli attori del film che passa alla tivù. Fuori dalla finestra, Toronto era spazzata da un vento gelido che s’infilava dietro ai cumuli di neve eruttando raffiche bianche sulle auto in sosta e sui volti dei pochi nottambuli di quel giorno infrasettimanale. Dentro, s’era accesa una luce: c’era un’altra stella che brillava tra i grigi e i neri di quel piccolo televisore da motel. L’altra stella, ai tempi in cui risplendeva sopra ogni cosa. Bello come non mai, con quel vestito da carcerato e i passi di danza.
Pensare che i due si erano incontrati, qualche settimana prima del motel. L’uno, bello della giovinezza, dei denti bianchi e della creatività che si ha a 29 anni; l’altro, imbolsito, dentiera preziosa e la stanchezza di vent’anni sempre sulla scena. Quarant’anni portati malissimo. “Come si è ridotto, poveraccio”, aveva pensato la stella giovane dopo la stretta di mano, appena prima di tirare una striscia.
Il ricordo dell’incontro di qualche mese prima gli balena alla mente come un treno in transito trafigge la pigrizia di una stazione estiva. Una metamorfosi terrificante: la stella di ieri si è trasformata nel cadavere ambulante di oggi. “Lui come me, lui come me”, si ripete mordendosi le labbra, negli istanti di lucidità. Prima che il sonno alcolico abbia il sopravvento, prende appunti: “chiamare Bernie, fargli scrivere testo su…”.
Sono passati più di sei mesi. A Londra, un ragazzino entra barcollante di timidezza in un negozio di dischi. È uscito da qualche giorno l’ultimo album del suo artista preferito, appena ha racimolato i soldi per comprarlo, si è affrettato. “Ah, costa di più? È doppio dice?”. Merda. Che gli è preso a queste popstar? Anche Stevie Wonder se ne era uscito con un doppio, un mesetto prima. Che doppio, signori. Speriamo che la stella della musica sia altrettanto creativa. Il ragazzino dovrà rinunciare a un paio di 45 giri che si era ripromesso di acquistare: If you leave me now dei Chicago, per esempio. Ok, pace, facciamo così, la stella non ha mai deluso.
Di corsa a casa, con il fiato dei tredici anni e il cuore che batte a mille. Sono ottantaquattro minuti e quarantasette secondi di musica, fruscii, delusioni, emozioni. La terza traccia dell’ultima facciata è molto delicata. Parla di una star al declino. Chissà se parla di Elvis. Il ragazzo ha letto da qualche parte che Elton l’ha incontrato. Mah! La canzone fa in tempo a finire, è l’ora di mangiare. “George, vieni a cena!”, strilla la madre. Nella testa gli risuonano le dolenti rime di Idol. Le stesse che canterà, questa volta masticandone il significato più intimo, trentacinque anni dopo.
‘Cause the fifties shifted out of gear
He was an idol then, now he’s an idol here
But his face has changed, he’s not the same no more
And I have to say that I like the way his music sounded before
Perché gli anni Cinquanta sono volati via
Era un idolo allora, oggi è un idolo qui
Ma la sua faccia è cambiata, non è più lo stesso
E mi tocca dire che preferisco come suonava la sua musica prima.
[Da sapere: nel 1976 Elton John pubblicò, a distanza di una settimana dalla celebre intervista a Rolling Stone in cui si dichiarò bisessuale, il doppio album Blue Moves. Per la prima volta dal 1972, non raggiunse la prima posizione in classifica (non l’avrebbe fatto mai più), forse anche per la cattiva pubblicità che gli aveva dato il coming out nell’America benpensante degli anni Settanta. L’album conteneva un brano – Idol – dedicato al decadimento fisico di Elvis Presley, che sarebbe morto poco più di un anno dopo. È ironico pensare che nel comporre musica sull’agonia di un nume Elton avrebbe rappresentato il proprio destino (almeno per qualche fase della sua vita adulta). George Michael ha sempre ricordato che i dischi di Elton gli fecero compagnia da ragazzino.]
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