Sabato 12 marzo scorso si è svolta presso il Teatro Signorelli di Cortona la presentazione del terzo libro di Stefano Duranti Poccetti, collaboratore di ValdichianaOggi e direttore del webmagazine Corriere dello Spettacolo. Il volume, intitolato Frammenti dalla Senna, è frutto di un lungo soggiorno dell’autore a Parigi e può essere ordinato in tutte le librerie locali o acquistato online.
Ho avuto la possibilità di parlare alla presentazione, instaurando un paragone tra gli eventi narrati nel libro e alcune pagine leopardiane (si parva licet). Riporto il testo del mio intervento, con alcuni lievi ritocchi (ricordo a tutti che entro fine mese l’intera presentazione sarà proposta sulle frequenze di Radio Incontri InBlu).
Buonasera a tutti!
Per prima cosa, intendo ringraziare non soltanto voi che siete accorsi a questa presentazione, ma soprattutto Stefano che mi ha dato questa grande opportunità. Parlare di letteratura in pubblico non accade di frequente: a me succede ora per la prima volta, per cui ne sono assai lieto.
Nel mio intervento eviterò volutamente di leggere passi dell’opera di Stefano – in questo sarò degnamente sostituito da chi parlerà dopo di me – ma intendo piuttosto collocare Frammenti dalla Senna in una linea tematica della tradizione letteraria italiana. Ci tengo a dire questo perché il volume, con tutti i suoi francesismi e i suoi riferimenti espliciti a romanzi dell’Ottocento francese (Zola, Hugo ecc.), parrebbe collocarsi più in un contesto transalpino. Invece, e questo è il senso della mia argomentazione, ha dei legami stretti con la tradizione italiana.
Com’è noto, Leopardi aveva un rapporto piuttosto negativo con Recanati, e tentò di allontanarsene a più riprese. Un’occasione fondamentale fu per lui fu il soggiorno romano tra il novembre 1822 e l’aprile 1823, prima di scrivere le Operette morali, i canti pisano-recanatesi ecc.
Leopardi era giunto a Roma sperando di costruirsi una carriera da filologo, vista la sua spaventosa preparazione nelle lettere greche e latine. Roma era stata per lui un approdo ideale sin dall’infanzia: la terra mitica cantata da Orazio e Virgilio, finalmente gli appariva davanti agli occhi.
Alme Sol, curru nitido diem qui
promis et celas aliusque et idem
nasceris, possis nihil urbe Roma
visere maius.
Sole divino, che sul cocchio luminoso dischiudi
e nascondi il giorno sempre nuovo e uguale
sorgi, e nulla maggior di Roma
possa tu vedere!
Così cantava Orazio nel Carme secolare, pronunciato da un coro di fanciulli in occasione dei Ludi secolari del 3 giugno del 17 a.C. Quella che aveva in mente Leopardi era la Roma di Orazio, un po’ come il narratore di Frammenti dalla Senna, alla continua ricerca della “Parigi che aveva immaginato leggendo i romanzi francesi dell’Ottocento”.
In entrambi i vasi, la grande città delude le aspettative. Vuoi perché non riuscì a trovare alcun impiego, vuoi perché i suoi stessi parenti lo ignoravano, Leopardi provò una delusione tale da scrivere al fratello (lettera del 6 dicembre ’22*):
Carlo mio. […] Domandami se in due settimane da che sono in Roma, io ho mai goduto pure un momento di piacere fuggitivo, di piacere rubato, preveduto o improvviso, esteriore o interiore, turbolento o pacifico, o vestito sotto qualunque forma, io ti risponderò in buona coscienza e ti giurerò, che da quando io misi piede in questa città, mai una goccia di piacere non è caduta sull’animo mio; eccetto in quei momenti ch’io ho letto le tue lettere, i quali ti dico senz’alcuna esagerazione che sono stati i più bei momenti della mia dimora in Roma […].
L’uomo non può assolutamente vivere in una grande sfera, perché la sua forza o facoltà di rapporto è limitata. In una piccola città ci possiamo annoiare, ma alla fine i rapporti dell’uomo all’uomo e alle cose, esistono, perché la sfera de’ medesimi rapporti è ristretta e proporzionata alla natura umana. In una grande città l’uomo vive senza nessunissimo rapporto a quello che lo circonda, perché la sfera è così grande, che l’individuo non la può riempire, non la può sentire intorno a sé, e quindi non v’ha nessun punto di contatto fra essa e lui.
Da questo potete congetturare quanto maggiore e più terribile sia la noia che si prova in una grande città, di quella che si prova nelle città piccole: giacché l’indifferenza, quell’orribile passione, anzi spassione, dell’uomo, ha veramente e necessariamente la sua principal sede nelle città grandi, cioè nelle società molto estese. […] L’unica maniera di poter vivere in una città grande, e che tutti, presto o tardi, sono obbligati a tenere, è quella di farsi una piccola sfera di rapporti, rimanendo in piena indifferenza verso tutto il resto della società. Vale a dire fabbricarsi dintorno come una piccola città, dentro la grande; rimanendo inutile e indifferente all’individuo tutto il resto della medesima gran città. Per far questo, non è bisogno uscire delle città piccole […]. L’attirare gli occhi degli altri in una gran città è impresa disperata; e veramente queste tali città non son fatte se non per i monarchi, o per uomini tali che possano smisuratamente soverchiare la massima parte del genere umano in qualche loro pregio per lo più di fortuna, come ricchezza immensa, dignità vicina a quella di principe, o cose simili. Fuori di questi casi, voi non potete godere di Roma, e delle altre città grandi, se non come puro spettatore: e lo spettacolo del quale v’è impossibile di far parte, v’annoia al secondo momento, per bellissimo che sia.
Quasi quasi, stare a Roma porta Giacomo a rivalutare Recanati, perché la città grande è ingestibile, mentre in quella piccola, sappiamo come collocarci.
Lasciando da parte lo spirito e la letteratura, di cui vi parlerò altra volta (avendo già conosciuto non pochi letterati di Roma), mi ristringerò solamente alle donne, e alla fortuna che voi forse credete che sia facile di far con esse nelle città grandi. V’assicuro che è propriamente tutto il contrario. Al passeggio, in Chiesa, andando per le strade, non trovate una befana che vi guardi, io ho fatto e fo molti giri per Roma in compagnia di giovani molto belli e ben vestiti. Sono passato spesse volte, con loro, vicinissimo a donne giovani: le quali non hanno mai alzato gli occhi; e si vedeva manifestamente che ciò non era per modestia, ma per pienissima e abituale indifferenza e noncuranza: e tutte le donne che qui s’incontrano sono così. Trattando, è così difficile il fermare una donna in Roma come in Recanati, anzi molto più, a cagione dell’eccessiva frivolezza e dissipatezza di queste bestie femminine, che oltre di ciò non ispirano un interesse al mondo, sono piene d’ipocrisia, non amano altro che il girare e divertirsi non si sa come, non la danno (credetemi) se non con quelle infinite difficoltà che si provano negli altri paesi. Il tutto si riduce alle donne pubbliche, le quali trovo ora che sono molto più circospette d’una volta, e in ogni modo sono così pericolose come sapete.
Eppure, la condanna di Leopardi nei confronti delle romane e di Roma non è senza appello, esattamente come quella del narratore dei Frammenti dalla Senna. L’occasione in cui la città-mostro può redimersi è la visita alla tomba del Tasso, di cui vi leggo alcuni estratti, non solo perché è propedeutica alla lettura dei capitoli 2, 19 e 77 (fateci caso, perché sono tra i più interessanti dell’opera), ma anche perché si tratta di una delle pagine più belle di tutto Leopardi. Ancora una volta si tratta di una lettera al fratello Carlo**:
Per citare un altro gigante dell’Ottocento, a egregie cose il forte animo accendono l’urne de’ forti. Tasso è sepolto modestamente in Sant’Onofrio al Gianicolo, eppure la sua tomba è per Leopardi motivo di grande ispirazione, al contrario di quanto accade per i grandi mausolei, che sono perlopiù ignorati, come accade al Pantheon descritto nel capitolo 2 dei Frammenti.
Anche la strada che conduce a quel luogo prepara lo spirito alle impressioni del sentimento. È tutta costeggiata di case destinate alle manifatture, e risuona dello strepito de’ telai e d’altri tali istrumenti, e del canto delle donne e degli operai occupati al lavoro. In una città oziosa, dissipata, senza metodo, come sono le capitali, è pur bello il considerare l’immagine della vita raccolta, ordinata e occupata in professioni utili. Anche le fisionomie e le maniere della gente che s’incontra per quella via, hanno un non so che di più semplice e di più umano che quelle degli altri; e dimostrano i costumi e il carattere di persone, la cui vita si fonda sul vero e non sul falso, cioè che vivono di travaglio e non d’intrigo, d’impostura e d’inganno, come la massima parte di questa popolazione.
La gente che vive nei pressi della tomba di Tasso è diversa dagli altri romani, esattamente come diversi (moralmente) sono gli abitanti di Auberville nel volume che leggiamo. C’è molta idealizzazione, in Leopardi come in Duranti Poccetti. A noi cinici, pare troppo. E se fosse questo spirito ingenuo, il segreto della poesia?
* G. Leopardi, Tutte le poesie e tutte le prose, a cura di L. Felici ed E. Trevi, Newton-Compton, Roma 1997, pp. 1225-6.
** Id., p. 1239.
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