La storia che vi racconto oggi inizia nel 1970, quando il cortonese Quintilio Bruschi ha cinquantotto anni e vive ad Acquaviva di Montepulciano. Sposato con Mafalda, non ha figli. Vive della pensione d’invalidità che riceve a causa di un incidente al parietale subìto in Africa, durante la guerra. Non ha mai lavorato il legno, né ha una formazione artistica.
Ecco, è in questa situazione che Bruschi un giorno si sveglia, si procura scalpello e mazzuolo e lavora ad una scultura, in seguito donata a papa Paolo VI. La sua carriera di scultore naïf, comincia così. Nei decenni a seguire, fino alla morte nel 2002, Bruschi realizzerà decine di opere in legno e la sua arte sarà oggetto di articoli, recensioni, buoni giudizi da parte dei critici e apparizioni televisive. L’ultima grande mostra a vederlo protagonista è stata, nel 1997, la rassegna Arte Necessaria ai Cantieri Culturali della Zisa di Palermo. Alessandra Ottieri, curatrice dell’iniziativa, lo definì un outsider, accomunandolo ad altri artisti in grado di creare un’arte profondamente espressiva e di valore, pur essendo completamente autodidatti, di umili origini e senza alcun rapporto con l’ambiente dell’arte ufficiale.
Quando Vanessa Bigliazzi, nipote di Bruschi e mia collega al Consiglio Comunale di Cortona, mi ha parlato la prima volta dell’artista e della sua intenzione di organizzare una mostra per poterlo ricordare, le ho confessato di non conoscerlo. È stato grazie a lei e agli articoli di Ferruccio Fabilli che ho potuto avere un’idea di questo personaggio, tanto improbabile quanto sorprendente.
Andate in Fortezza: fino al 5 maggio sarà in mostra una selezione delle sculture di Bruschi, lavori su legno che ricordano i popoli primitivi, le grotte di Lascaux come i giganti dell’Isola di Pasqua. Si dice che Quintilio riuscì a liberare nel legno le forze che lo opprimevano dall’interno, ansie che molto probabilmente erano legate all’incidente in guerra. Non so quanto ci sia di vero in questa affermazione, ma è evidente che Bruschi, pur non avendo la formazione da scultore d’Accademia, riesce a conquistare lo spettatore con l’espressività della propria arte.
Come ha scritto Marco Pacioni nel suo contributo critico alla mostra:
viene in mente quando entriamo in una chiesa per osservarne le forme architettoniche, gli affreschi e poi ci imbattiamo, ad esempio, negli ex-voto. Essi appartengono a un altro tempo, a un altro luogo ai quali non eravamo preparati o non ci aspettavamo. Negli ex-voto, come nelle sculture di Quintilio Bruschi, troviamo due elementi apparentemente contraddittori e ripetuti: un’estrema stilizzazione combinata all’enfasi di alcuni elementi. Le componenti enfatizzate (certi tratti del volto e della testa, i seni pronunciati, l’evidenziato espressionismo dei genitali), nelle opere creano una sorta di ritualità che ogni volta si cristallizza e, nella sua ossessività, ci chiede attenzione. Come i manufatti votivi, i totem o gli ex-voto queste sculture non invitano tanto alla contemplazione e investigazione. Esse anzitutto ci vogliono parlare, si rivolgono direttamente a noi che le guardiamo, presupponendo la possibilità che noi possiamo ascoltarle e come suggerendoci che anche in noi c’è una dimensione resistente al tempo, una sorta di India edenica in cui vivono le forze emozionali primordiali che non mutano.
La vecchia India di Quintilio Bruschi torna a mostrarsi, grazie al supporto dell’Amministrazione Comunale e dell’associazione On The Move. Invito le lettrici e i lettori a salire in Fortezza per farsi conquistare da queste sculture fuori dal tempo, con l’augurio che anche dopo il mese di maggio possano trovare una degna collocazione, magari nel nostro museo o Palazzo Comunale.
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