La nostra vita psichica sperimenta continuamente una molteplice gamma di emozioni, non perché esse abbiano valore di giusto o sbagliato, ma semplicemente perché fanno parte del nostro patrimonio umano. Non sempre le persone si danno il permesso di entrare in contatto con tutte le emozioni che possono emergere all’interno di sé, operando una selezione tra ciò che “si può” e “non si può” provare. L’emozione che forse più di tutte è soggetta a censura razionale è la rabbia.
Spesso ci si dimentica che la rabbia è un’emozione umana necessaria di fronte all’emergenza.
Gli esseri umani non riescono a vivere la loro esistenza senza imbattersi in qualche emergenza, e tutti si trovano prima o poi ad esperire uno stato di rabbia.
La rabbia è nell’immaginario comune sinonimo di distruttività: ciò non è sempre vero, poiché la reazione violenta è solo uno dei possibili esiti comportamentali di tale emozione.
Operando l’associazione diretta tra rabbia e distruttività, connotiamo questa emozione come da evitare, soprattutto da chi ha l’assoluto bisogno di qualificarsi come “persona-per-bene” (…e chi di noi non ha questa esigenza?).
Questa operazione di dimenticarsi la rabbia agisce al livello della mente razionale e del controllo della comunicazione verbale con l’altro, ma nulla può sull’aspetto analogico della comunicazione, incontrollabile dall’individuo e veicolo potentissimo e diretto di messaggi non verbali diretti a chi ci circonda.
Così la persona sperimenterà tutte le reazioni fisiologiche della rabbia senza poter comunicare direttamente su di essa e senza concedersi il permesso di esplicitarla, nemmeno a se stessa: i muscoli si tendono, le labbra si stringono, il respiro diventa irregolare, la pelle si arrossa, le palpebre si tendono. Con il passare del tempo, la persona comincia ad irrigidirsi anche all’interno, i muscoli, il sistema digerente, le pareti arteriose e venose si stringono, anche se esternamente la persona si mostra calma e fredda. A questo punto la persona non è più consapevole della rabbia esperita, ma solo del suo malessere fisico. I sentimenti di questa persona sono finiti nel “sottosuolo”, continuando ad agire senza consapevolezza.
Queste persone nel tempo possono arrivare a sviluppare un serbatoio per la rabbia, che si riempie ed esplode periodicamente, spesso fuori contesto.
Oppure possono tramutare queste emozioni indicibili in sintomi dolorosi e inspiegabili, come accade nelle malattie psicosomatiche.
Inoltre la rimozione della rabbia mistifica i contenuti della comunicazione con l’altro e la relazione sarà così danneggiata al livello più profondo, fuori dal nostro controllo cosciente.
Se permettiamo a noi stessi di credere che la rabbia è un’emozione umana naturale in determinate circostanze, allora possiamo rispettarla e ammetterla come parte di noi stessi, imparando i diversi modi di poterla utilizzare.
Comunicare l’esperienza della rabbia chiaramente e onestamente con la persona coinvolta (e prima di tutto con se stessi!) farà sì che essa non assuma il potere distruttivo che spesso vi associamo.
Condividere la rabbia permette di poter scegliere il modo migliore per agire sull’oggetto di essa, affinché questa specifica emozione assolva il suo naturale scopo evolutivo, senza diventarne vittime.
Ciò pare difficile, soprattutto quando si parte dalla premessa valoriale che l’evitamento della rabbia sia un bene. Su questo tema mi torna alla mente un aforisma di Epicuro che ben descrive questa tendenza umana:
“Nessuno sceglie il male capendo che è un male, ma ne resta intrappolato se, per sbaglio, lo considera un bene rispetto ad un male maggiore”.
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