Ad ognuno il suo. Il nome. C’è chi si chiama Asia come un continente, c’è chi si chiama Viola come un colore, c’è chi si chiama come la cannella dell’acqua pronunciata in francese – Chanel – e c’è chi si chiama come me Cecilia. Il nome della protettrice della musica, dei musicisti, il nome della dama dell’ermellino e della sorella di Belen per non tralasciare tutte le persone importanti. Proveniente niente di meno che dal mio amato latino e dal significato aulico e ricco di importanza “caecus” ossia cieco. Nome mai fu più promettente visto la mia vista poco da falco e tanto da talpa.
Il nome è il primo elemento identitatario della nostra vita e nel male e nel bene è ciò con cui ci presentiamo al mondo, la sua importanza è tanto fondamentale che il genio della commedia Oscar Wilde ci ha scritto anche un libro “L’importanza di chiamarsi Ernesto” .
Chiamarsi Cecilia in queste zone in cui se non strascichi la C non sei nessuno – me compresa – è davvero un’esperienza divertente, una vera e propria sfida quando l’anno scorso durante il censimento mi sono sentita chiamare Sicilia, Cicilia e perfino Priscilla. Se il mio secondo nome non fosse stato peggio del primo probabilmente avrei abdicato.
Arrivando al dunque di tutto questo discorso preparatorio ci sono anche dei momenti che mi rendono fiera di portare un nome storico e particolare, il culmine per ora era ascoltare la canzone Cecilia dei Simon & Garfunkel. Ma una mia cara collega quasi giornalista, quasi interprete e mangiatrice di libri me ne ha aggiunto uno.
<< È la volta di Cecilia, una città dal bellissimo nome: che cosa insegnerà a noi come all’imperatore dei tartari?
Pur conservando lo stesso nome, la città ha cambiato completamente volto.
Sino a questo punto Marco non ha parlato, se non fugacemente, degli spazi vuoti, dei campi di segale, delle foreste, dei mari… Forse è bene parlarne attraverso Cecilia.
Molti anni prima, Marco Polo aveva incontrato nelle vie della città un capraio che, ignorando la direzione da prendere per uscirne, si era rivolto a lui per saperlo. Stupito, il veneziano gli aveva risposto che era Cecilia, nota al mondo intero. Il capraio si era scusato della propria ignoranza, gli si poteva però chiedere, aveva aggiunto, il nome di ogni filo d’erba, di ogni pianta, di ogni albero. Su tutto questo era un esperto!
Molti anni dopo Marco era ritornato nella stessa città senza più riconoscerla. Smarrito, disorientato, aveva chiesto aiuto a un passante che, sconsolato, aveva risposto che quella città era Cecilia, la città in cui era rimasto prigioniero perché ormai aveva invaso prati, campi, tutto intorno. Era il pastore di un tempo, molto incanutito, con poche spelacchiate capre che rovistavano tra i bidoni della spazzatura.
“I luoghi si sono mescolati – disse il capraio – Cecilia è dappertutto; qui una volta doveva esserci il Prato della Salvia Bassa. Le mie capre riconoscono le erbe dello spartitraffico.”
Amara constatazione l’invasione del cemento, il paesaggio profanato, irriconoscibile.
Perdiamo tutti in leggerezza, in bellezza, ma anche in ricchezza, perché una collina verde, un albero di sorbo, uno stagno, un campanile che svetta tra case basse, tutto ciò è ricchezza >>.
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