Quando l’emergenza coronavirus sarà passata – e naturalmente tutti ci auguriamo che questo accada il prima possibile – dovremo fare i conti con gli strascichi economici negativi che essa ci avrà lasciato in dote e fin d’ora è facile intuire che uno dei comparti più colpiti sarà quello dell’editoria che già versa in una difficile crisi da svariati anni. Al suo interno peraltro i danni maggiori li subiranno inevitabilmente i piccoli editori indipendenti che, con fatica e abnegazione, tirano avanti e talvolta riescono anche a scovare testi di notevole spessore letterario, sfuggiti chissà come e perché alle grandi major dell’editoria nazionale.
È esattamente il caso che vi propongo oggi: “Virginia nel cassetto” di Stefano Biolchini pubblicato da Cafféorchidea Editore di Eboli in provincia di Salerno. Si tratta di una giovane casa editrice, il cui nome è romanticamente ispirato al luogo magico di Lisbona in cui il grande Antonio Tabucchi ha ambientato il suo “Sostiene Pereira” (uno dei romanzi più belli della fine del ‘900, dicono loro, e io sono perfettamente d’accordo). Per quanto riguarda l’autore sappiamo dalla quarta di copertina che è un giornalista che lavora presso la redazione della Domenica de Il Sole 24 Ore e che ha già pubblicato in Francia e in Italia un saggio sulla Parigi dei Poeti Maledetti.
Ma veniamo al libro. Di primo acchito potremmo definirlo semplicemente come una saga familiare che si snoda tra Cagliari, Roma e Parigi nel tentativo di svelare la storia e la personalità di Virginia, zia dell’io narrante e protagonista di uno scandalo sanguinoso (come sempre della trama darò maggior conto alla fine della recensione). In realtà però non è tutto qui, anzi direi che la storia narrata rappresenta solo la punta di un iceberg, la cui parte più consistente è costituita da una serie di riflessioni che l’autore garbatamente suggerisce al lettore relative soprattutto al rapporto tra vita e letteratura, ma anche a quello che forse potremmo chiamare il destino iscritto nel DNA, cioè quel misterioso legame che attraverso il tempo ci porta a ripetere in maniera compulsiva gli stessi comportamenti, spesso autodistruttivi, che i nostri avi hanno già sperimentato.
Tutto questo viene raccontato con uno stile piacevolmente schizofrenico, alternando momenti in cui la lingua utilizzata si presenta come scarna, tagliente ed essenziale ad altri in cui, specie nelle descrizioni paesaggistiche, si trasforma invece in strumento ricco e raffinato attraverso l’utilizzo di vocaboli colti e talvolta desueti.
Insomma, una bella scoperta che mi sento di consigliare a tutti coloro che da un libro si aspettano qualcosa di più di una storia (che pure c’è ed è robusta), ma vogliono anche lasciarsi condurre nelle dimensioni inesplorate della psiche di personaggi a cui è impossibile non affezionarsi.
Concludo come al solito riportando la trama del libro desunta dal sito della casa editrice. Buona lettura.
“Ci sono storie nascoste, maledette. La famiglia Corsini – nobili e fieri proprietari terrieri sardi – per anni è riuscita a nasconderne una. Ma alla morte del padre, Andrea comincia un percorso di ricerca che parte da Parigi, in un piccolo appartamento di famiglia, e tra lettere, foto e racconti arriva fino a Virginia e alla sue peripezie; di queste inizia a scriverne un romanzo.
In una Sardegna antica, fra strade di paesi labirintiche, sguardi pesanti e voci di piazza, la storia di Virginia apre uno squarcio sul mondo sardo durante il ventennio fascista, indaga l’orgoglio di una famiglia, la cupidigia dei possedimenti, gli scontri generazionali. E scopre il velo su una storia di coraggio e ribellione, l’epopea di una Nora post-Ibseniana alla ricerca della propria redenzione.”
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