Come sanno bene i miei quattro fedeli lettori, mi capita spesso in questa rubrica di parlare di esordi letterari e devo dire che questo fatto mi rende particolarmente orgoglioso. È il caso di questo libro della giovane autrice svizzera Michelle Steinbeck, pubblicato in Italia da Tunuè, editore originariamente specializzato in graphic-novel che da qualche anno ha inaugurato anche una collana di narrativa a cura di Vanni Santoni a cui ha recentemente affiancato Giuseppe Girimonti Greco per quanto concerne la letteratura straniera.
Il libro in questione, fin dal titolo particolarmente immaginifico, si presenta subito per quello che è: una favola surreale, un visionario racconto di formazione che procede per metafore, trasportandoci inesorabilmente all’interno della psiche della protagonista: Loribeth.
Sbaglierebbe però chi, sulla base della mia dichiarazione precedente, pensasse di trovarsi di fronte a un libro privo di trama, a un costrutto confuso e senza filo conduttore. Certo, l’atmosfera onirica è potente e avvolge le pagine una dopo l’altra in una sorta di progressiva vertigine, ma il testo si dipana comunque dall’inizio alla fine mantenendo una sua coerenza interna non solo stilistica, ma anche narrativa.
Della storia comunque, come mia abitudine, darò conto alla fine.
Adesso mi preme di più sottolineare un paio di cose. La prima è che, come tutti gli esordi, anche questo trabocca di citazioni tanto implicite quanto evidenti. Penso a Carroll (Alice nel paese delle meraviglie), ma anche a Gaiman (Coraline) e Baum (Il mago di Oz) e potrei continuare a lungo. Eppure la Steinbeck riesce a rielaborare questi riferimenti con sorprendente leggerezza, facendo sì che non appesantiscano l’originalità del racconto, ma anzi le conferiscano una profondità che odora di classico.
L’altro aspetto che non può passare inosservato è la qualità della scrittura che, credetemi, è davvero notevole (e qui credo occorra darne merito anche alla traduttrice Hillary Basso). Vi è in essa infatti un ritmo poetico, una musicalità della parola che talvolta sfocia quasi in metrica. A riprova, voglio proporvi un breve brano che consiglio di leggere a voce alta e che rende manifesto ciò che intendo più di qualsiasi altra spiegazione: “Osservo le cornacchie che si lanciano le noci e saltello e strascico i piedi e corro sulla ghiaia e trascino e scaravento la valigia in aria”. Lo stesso brano mi serve anche come esempio di un’altra connotazione stilistica molto forte di quest’opera e cioè la capacità descrittiva, espressa però non attraverso voli pindarici o vezzose circonlocuzioni, ma al contrario con frasi concise e spezzate, inquadrate entro la rigida grata della congiunzione ripetuta e della punteggiatura. Insomma, una maturità espressiva che, data la giovane età della scrittrice, indubbiamente stupisce.
Mi fermo qui, consigliando senz’altro la lettura di questo libro e, come promesso, fornendo qualche cenno sulla trama, desunto dal sito della casa editrice: “Loribeth non vuole crescere. L’abbandono da parte del padre l’ha bloccata in un limbo di paure che prendono vita quando la donna si ritrova a dover accudire un bambino. In una dimensione onirica e simbolica che non vede alcun grado di separazione con la realtà, anche Loribeth fugge da questa nuova responsabilità portando con sé soltanto una valigia appartenuta al padre con dentro il bambino morto. È un viaggio attraverso paesaggi in continuo mutamento che brulica di persone deformate dalla vita”.
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