Dopo una lunga pausa che, per dirla col poeta, mi ha visto in tutt’altre faccende affaccendato, ho deciso di riprendere l’attività che, anche a detta dei miei detrattori, so fare meglio e cioè parlare di libri. Lo faccio con un’opera sicuramente non facile né scontata: “Il vuoto” di Serena Penni, pubblicato da Edizioni dell’Orso nella collana La linea d’ombra.
A una lettura un po’ superficiale si potrebbe catalogare quest’opera nel novero di quelle (giustamente sempre più numerose) che, attraverso la finzione narrativa, si occupano di quel tragico fenomeno che i media hanno battezzato col nome, invero alquanto freddo e burocratico, di “femminicidio”. Ma non è così, o meglio non è solo così.
Il focus principale del libro in realtà risiede, a mio giudizio s’intende, sulle dinamiche asfittiche della famiglia borghese in dissoluzione, sull’ansia soffocante di un rapporto di coppia privo di passione e di slancio autentico, sul legame malato costituito da affetti filiali egoistici e maldestri. È qui che l’autrice dà il meglio di sé e riesce a penetrare la corazza da lei stessa imposta ai suoi personaggi.
Lo stratagemma letterario di raccontare la medesima storia da due punti di vista diversi, prima da quello della moglie-vittima e poi del marito-carnefice, ha il merito di aumentare il chiaroscuro della vicenda, conferendo una sorta di profondità emotiva e temporale al racconto e contribuendo a dilatarlo e a farlo uscire dai confini della sterile cronaca dei fatti.
Un discorso a parte è giusto dedicarlo allo stile, così liscio, misurato e controllato da lasciare al lettore la sensazione di accarezzare una piccola colonna di alabastro. Va bene, anzi benissimo, ma se mi posso permettere un consiglio, vorrei suggerire all’autrice di non eccedere ulteriormente con questa sua caratteristica. Qualche asprezza, qualche ruvidezza e, vivaddio, anche qualche imperfezione gioverebbero paradossalmente a conferire maggiore fascino a una scrittura che comunque appare già solida e matura.
Concludo, come sempre, dando conto della trama con le parole usate dalla casa editrice:
‘Una moglie. Un marito. Ilenia e Francesco. Due punti di vista su una stessa terribile vicenda. Ilenia, nella prima parte del libro, narra la propria storia, racconta di un’infanzia infelice vissuta in una famiglia borghese, di nuovi ricchi immobilizzati dalla paura di non essere all’altezza della propria classe sociale. «Eravate persone posate». Così descrive Ilenia i suoi genitori. «Posati a terra, non volavate mai eppure eravate sempre stanchi. Non vi siete mai concessi una risata che venisse dal cuore». Francesco invece no, lui Ilenia l’aveva fatta ridere, solo una sera, ma tanto le era bastato a intravedere una via di fuga verso una felicità che si sarebbe ben presto rivelata ingannevole ed effimera. La solitudine di Ilenia, la sua tristezza, la sua malinconia si contrappongono alla vita sregolata e menzognera di Francesco, voce narrante della seconda parte del romanzo. Un uomo di umili origini, ambizioso ma perennemente insoddisfatto, che non ha saputo accontentarsi dei propri successi e che le continue frustrazioni autoinflitte hanno portato sull’orlo del baratro. Ilenia rappresenta ciò che Francesco non potrà mai essere: «il peso del suo giudizio l’ho sentito…»
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