Il mio primo incontro letterario con Giuseppe Munforte risale all’anno scorso, quando un suo libro (Nella casa di vetro, Gaffi Editore) salì alla ribalta delle cronache per essere stato candidato al Premio Strega. Credo che ormai i miei pochi lettori affezionati sappiano che io sono sempre incuriosito dai testi che, trasportati da piccole navi, riescono ad entrare in grandi porti (e Gaffi, pur essendo un editore piuttosto noto e apprezzato, di certo non è un transatlantico dell’editoria). Perciò lessi il libro, traendone sensazioni discordanti, tanto che lo misi da parte, sospendendo il giudizio.
Recentemente mi è stata segnalata l’uscita della nuova opera di Munforte (Dove batte l’onda, Melville) e ovviamente mi ci sono fiondato con la speranza di poter sciogliere quelle impressioni contraddittorie e di giungere finalmente ad un giudizio univoco. Peraltro devo dire che anche il profilo dell’editore (nuovo, anzi nuovissimo, tanto che il sito internet è ancora in costruzione) mi risultava alquanto invitante, per le ragioni sopra ricordate.
Purtroppo per me, anche questa nuova lettura non è riuscita a cancellare i dubbi che avevo precedentemente su Munforte e che scaturiscono dal contrasto conclamato tra le trame tenui, direi addirittura diafane, e uno stile estremamente lavorato e complesso, che in alcune parti abusa di un ostentato lirismo e di termini colti e desueti. Una cosa bisogna dirla, si tratta di una scrittura assolutamente originale che inevitabilmente ottiene il risultato di farsi odiare o, al contrario, amare alla follia, senza alcuna possibilità di compromesso.
Ai posteri e a voi, miei cari lettori, l’ardua sentenza.
Intanto vi sia di supporto questa breve sinossi del libro scritta da Andrea Caterini (a sua volta autore notevole, critico letterario e soprattutto curatore della collana dell’editore Melville all’interno della quale è ricompresa l’opera in oggetto):
“In una Milano che assomiglia a certi vicoli ciechi di Parigi, i quartieri bohémien gonfi di fumo, alcol, luci fioche e vite perdute, se non fosse che i fumi sono quelli delle fabbriche e delle insegne di qualche negozio sempre aperto di cinesi, Sergio siede al tavolino di un bar, Miss Piggy, isolato in un deserto senza passato. Ha cambiato vita e quella precedente l’ha obliata, ma non del tutto. Ricorda e non ricorda. Qualcosa, un amico, Marcello, o quel suo fratello-discepolo, forse un doppio, impazzito dalla droga, Thomas, lo riportano di tanto in tanto a ciò che ha abbandonato, ma senza l’accelerazione prorompente di una madeleine. Finché una donna, Fulvia, sfuggente e meravigliosa, ambigua e determinata, torna a cercarlo dal passato di una vita che credeva sepolta. Chi è Fulvia se non una calamità che spinge Sergio di nuovo in quella soglia dove vita e morte si sono per un momento fissate, svelando la verità dell’esistenza? Tra loro comincia una storia d’amore, di tormenti e passione; una storia che forse era già cominciata quando Fulvia non era Fulvia, e Sergio era ancora un altro. Una storia che apparteneva alla vita di altri che non sono più loro. Eppure, alla fine di tutto, quella vita che non era la loro pur appartenendogli, li riconnette non già al loro passato, ma a un futuro anteriore, come dire nello spazio di mistero in cui, di nuovo, vita e morte sono un solo barbaglio – lì dove l’essere si afferma proprio nella certezza di non essere già più…”
Buona lettura.
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