Elton John And Leon Russell – The Union – Mercury 2010.
Già vedo la smorfia di disgusto di qualche lettore indi(e)sponente con commento del tipo “che palle quel trombone di
Elton John”. E probabilmente il nostro amico neanche conoscerà l’esistenza di
Leon Russell. Allora cominciamo col dire che nella sua lunga carriera sir
Elton ha prodotto ottimi dischi (soprattutto all’inizio), che è un eccellente pianista, un grande cantante e un eccezionale performer. Certo ha fatto anche tanta paccottiglia pop, a dir poco imbarazzante (ma chi è senza peccato scagli la prima pietra…). Da giovane il suo mito era
Leon Russell, pianista, produttore, agitatore musicale e capobanda dei
Mad Dogs & The Englishmen (gruppo che accompagnò
Joe Cocker in una storica tournée di grande successo, nell’anno del Signore 1970). Questo barbuto musicista è stato fondatore, insieme a
Dennis Cordell, della
Shelter Records, molto attiva negli anni 70 e responsabile della pubblicazione di alcuni album eccellenti (pensiamo ai primi quattro mitici dischi di
JJ Cale, alle prime due uscite di
Tom Petty & the Heartbreakers, a una manciata di piccole perle blues di
Freddy King e alle ottime fatiche discografiche dello stesso
Russell, uscite nei primi anni 70). Pian piano il music business si è dimenticato di lui. E adesso il ricco e “annoiato”
Elton ha sentito il bisogno di incidere un album sincero insieme con il suo anziano e malato maestro, rispolverando un sound 70, lontano anni luce dal suo attuale patinato e vendutissimo pop. Pare che la casa discografica gli abbia invece proposto un Christmas album alla camomilla e che lui li abbia letteralmente mandati a fare in quel posticino… Vi dico subito che il disco è molto bello, intenso, di gran classe. Non è insomma la solita operazione nostalgia che lascia il tempo che trova: qui ci sono delle splendide canzoni (per esempio una ballata meravigliosa come
Gone To Shiloh, con un cammeo da brividi dell’immenso
Neil Young o una “ruspante”
If It Wasn’t For Bad). Il piano dei due musicisti la fa da padrone e a volte sposta il sound verso quel mix di boogie, r&b, country e gospel che è il tratto distintivo dello stile di
Russell (basta ascoltare l’energica
Hey Ahab, la giosa
Monkey Suit, l’intensa
There’s No Tomorrow, la cavalcata honky-tonk
A Dream Come True, il “country pop”
Jimmie Rodger’s Dream). Non mancano le dolci ballate pianistiche di cui
Elton è maestro e che finalmente, grazie anche all’abile produzione di
T-Bone Burnette, riescono ad avere una bellezza essenziale, distante assai dagli eccessi glicemici a cui il nostro ormai ci aveva abituato (
Eight Hundred Dollar Shoes,
The Best Part Of The Day,
Never Too Old [To Hold Somebody]). Se aggiungiamo che al disco partecipano grandi musicisti come
Brian Wilson,
Booker T. Jones,
Jim Keltner,
Marc Ribot, il gioco è fatto… L’amico ritrovato.
Voto:28/30
Dirtmusic – BKO – Glitterhouse 2010.
A dire la verità questo splendido disco ha allietato gran parte della mia estate; ma a novembre, forse per via di un tempo umido e burrascoso, è ritornato a scaldare il mio cuore. Chris Eckman, mente dei Walkabouts, Hugo Race, irrequieto musicista e storico ex componente dei Bad Seeds, Chris Brokaw, all’inizio con l’ottima meteora sonora Codeine e poi membro dei grandi Come, nel 2007 hanno deciso di creare una nuovo progetto musicale chiamato Dirtmusic. Il loro primo, omonimo album, pubblicato dalla Glitterhouse, vede la luce alla fine di quell’anno; si tratta di un disco di etereo folk rock debitore dello sterminato patrimonio della musica popolare americana (ottima una ipnotica versione di un classico come Morning Dew). All’epoca poco considerato, è sicuramente un’opera da riscoprire. La svolta dell’unione artistica di queste tre menti musicali è l’invito al Festival In The Desert che si svolge ad Essakane nel Sahara maliano. Qui socializzano con i Tamikrest, nuovi paladini di quell’affascinante tuareg rock (tra suggestioni blues, derive psichedeliche e ancestrale musica sahariana) che ha nei Tinariwen i suoi padri fondatori, e si innamorano della musica di questo popolo itinerante. Il matrimonio stilistico non è forzato, visto che i Dirtmusic nel loro esordio sposavano l’estetica di un folk del deserto. A questo punto è quasi naturale che i nostri, un anno dopo, vadano a Bamako nei Bogolan Studio fondati da Ali Farka Touré per produrre Adagh, ottimo esordio dei Tamikrest, e registrare questo BKO, accompagnati dai giovani musicisti tuareg. Lasciati da parte i pareri scandalizzati di certi “puristi musicali” (brutta razza che ha sempre bazzicato la critica musicale…), si può tranquillamente affermare che la musica più bella spesso nasce dalla contaminazione tra generi e culture (tutta la musica “nera”, dai Caraibi, al Sud America, dal Nuovissimo Mondo, alla madre Africa, fino all’immensa tradizione afro-americana, è un inno all’ibridismo musicale…) e questa fatica discografica dei Dirtmusic lo conferma. Allora è bello perdersi in rock blues sporcati dalla rossa sabbia del Sahara (Black Gravity, Ready For The Sign, Desert Wind, Lives We Did Not Live) o farsi trasportare dalle dolci e ipnotiche note di ballate folk, che mischiano in maniera suggestiva atmosfere africane (meravigliosa l’accoppiata tra banjo e strumenti a corda della tradizione maliana in Unknowable e soprattutto nello splendido strumentale Niger Sundown). Ma la quadratura del cerchio è la riproposizione di una splendida All Tomorrow’s Parties, che in un solo momento unisce i Velvet Underground ad Ali Farka Tourè, la languida decadenza rock dei primi con la dolce malinconia della musica del fiero e solitario popolo del deserto. Futuro Primordiale…
Voto 28,5/30
Massimo Daziani