Sgombriamo il campo dai luoghi comuni: Il capitale umano non è un film sulla crisi dei valori (come ce lo spacciano i media, perché la crisi dei valori fa molto figo), né un thriller; soprattutto non è una didascalica pittura del destino infame che si è portato via un poveraccio, sbarbato via dalla sua bici da un pirata della strada a Ornate, paese inventato della Brianza che di vero ha il finale in -ate, appunto. Il capitale umano prende spunto da tutto ciò, ma lo fa come meschino pretesto, perché in realtà è un qualcosa di oltre. Il capitale umano è probabilmente il miglior prodotto di Paolo Virzì, forse il migliore della stagione in Italia.
È quasi impossibile, oltre che ingiusto, provare a raccontare la trama del film senza spoilerare né confondere il lettore. Tutto ruota attorno a questo incidente mortale, un fatale investimento che sconvolge la vita di due famiglie. I Bernaschi, famiglia ricchissima con grossi poteri nel mondo della finanza; e gli Ossola, nucleo medio guidato da un arrivista medio (un eccezionale Fabrizio Bentivoglio), disposto a tutto pur di entrare negli affari dei Bernaschi, anche a giocarsi il futuro della figlia (come recita il trailer). A legare le due famiglie è l’amore del rampollo della prima per la figlia unica dell’altra. Massimiliano e Serena, due 18enni. A legare le due famiglie all’incidente è che il pirata anonimo guidava il Suv di Massimiliano. Adesso penserete che tutto il film gioca sulle peripezie investigative e i traumi familiari che seguono l’accaduto: niente affatto, in realtà ciò che succede dopo ci viene appena accennato. Il film trova la sua forza devastante in ciò che succede prima. Una sorta di investigazione ante-factum pennellata in una Brianza oscura ed eterea, vista dalla prospettiva di un regista livornese trapiantato a Roma, che a Milano c’era andato giusto in gita al liceo. E’ una Brianza sconosciuta, che sembra quasi parlare un’altra lingua.
Il geniale espediente drammaturgico che usa Virzì è la storia vista da tre diverse prospettive, espediente che aiuta ad accentuare in modo esasperato quello che secondo me è il sentimento fondamentale del film: l’individualismo. A tal proposito si notino i tantissimi primi piano schiacciati su Dino o Carla, con la camera traballante che restituisce ansia, oppure il fatto che ci accorgiamo del dente storto che rovina il sorriso fresco e giovane di Serena a film praticamente finito. Fra segreti e scene che tramortiscono le sicurezze dello spettatore, ogni personaggio vive sulla pelle il distacco incolmabile fra la propria individualità intima e l’immagine che gli altri hanno di lui. E provano a somatizzare questa situazione di vero disagio psichico con orpelli vari: dal tennis (Giovanni Bernaschi), al teatro (Carla Bernaschi); dall’arrivismo spietato (Dino Ossola) al sogno di una maternità tardiva (Roberta). Sembrano così implodere su se stessi, distaccandosi dalla sfera della relazioni umane e sociali e non comprendendola. Babbo Bernaschi non è deluso per il figlio quando costui perde il titolo di miglior studente dell’anno, è deluso per sé, per il prestigio andato a puttane. Tiro in ballo Pirandello e Freud, lo so, ma è Virzì stesso a tirarli in ballo durante il film, e già ne La prima cosa bella si poteva tratteggiare un’analisi psicanalitica dei personaggi. Niente di nuovo e di originale, forse. Ma qui colpisce l’inconsapevolezza, l’immediatezza della resa cinematografica. Come si è arrivati a tutto questo, invece, non lo sappiamo e non lo sapremo mai. Bramosia di denaro? Crisi di valori? La mafia? I cinesi? Fate voi, amo Virzì (anche) perché dà ampi spazi di interpretazione. Alla fine comunque c’è il buono (anzi due). Così è, se vi pare.
Per i dettagli tecnici, detto del delizioso tocco in regia, occorre complimentarsi per la sceneggiatura firmata a sei mani con Francesco Piccolo e Francesco Bruni (tratta da un plot letterario di Stephen Amidon), e occorre elogiare anche l’interpretazione di Valeria Bruni Tedeschi – la sua Carla non si capisce mai se fa la stupida o se ci è – e di Fabrizio Giffuni. Defilata la Golino; ottima invece la ragazza, Matilde Gioli, una Katie Holmes di 15 anni fa. Bene a tratti la colonna sonora, firmata come al solito dal fratello del regista, Carlo Virzì.