{rokbox title=| :: |}images/cavalliselvaggi.jpg{/rokbox}Se in Non è un paese per vecchi si respirava un’atmosfera western intrisa di elementi pulp, in Cavalli selvaggi il clima arido del “sogno western” si mescola magistralmente alle scene visionarie e desolate de La Torre Nera di Stephen King. McCarthy, nel suo stile asciutto e tagliente, è talmente bravo a descrivere l’atmosfera che sembra di percepire in bocca il sapore amaro della polvere sabbiosa.
Il risultato: un romanzo intenso, una trama ricca e appassionante, un pizzico di lirismo che spiazza. Infatti, a differenza del cinismo spietato e senza riscatto di Non è un paese per vecchi, in questo romanzo più giovane (scritto nel 1992), il cinismo è puro e trasparente, come piace a me: è quel cinismo che sì sopprime ogni Valore, ma è quel cinismo che, nel deserto buio e silenzioso dove tutto è Niente, permette di sperare in un stella cometa, una flebile luce che deve essere protetta dai mali del mondo. Leggiamo a pag. 280: pensò che la bellezza del mondo nascondeva un segreto, che il cuore del mondo batteva a un prezzo terribile, che la sofferenza e la bellezza del mondo crescevano di pari passo, ma in direzioni opposte, e che forse quella forbice vertiginosa esigeva il sangue di molta gente per la grazia di un semplice fiore.
In definitiva Cavalli selvaggi è un romanzo di formazione: John Grady Cole, un adolescente texano la cui madre è stata costretta a vendere la fattoria, decide di partire all’avventura verso il Messico in compagnia dell’amico Lacey Rawlins. I caratteri del romanzo di formazione ci sono tutti: la fuga, la frontiera, il deserto, la paura, l’amore impossibile per una ragazza, il ritorno a casa reso complicato da innumerevoli problemi. Alla fine rimaniamo stupiti quando ci accorgiamo che, seppure la trama si svolga nel giro di sette mesi, noi immaginiamo John Grady un trentenne vissuto. E del resto, partendo da un John Grady timido e succube del padre, nel finale risultano un tantino inverosimili sia il suo coraggio sia tutte le peripezie che compie per scappare dal Messico.
Riassumere la trama è davvero difficile, e sono felice nell’ammettere che dopo anni ho riletto con vera passione un libro che abbia anche una trama. In compagnia di un ragazzino misterioso che monta un baio stupendo e che si aggiunge ai due eroi nei pressi della frontiera, John Grady e Rawlins galoppano verso le montagne del Messico. Sarà proprio Blevins a dare il via a una catena di eventi disastrosi che induriranno la pelle e le ossa dei nostri: prima scappano dallo sceriffo armato di un villaggio, poi lavorano per mesi come addestratori presso l’hacienda La Purisima, poi vengono arrestati perché ritenuti colpevoli del furto del baio di Blevins, poi in carcere rischiano la vita. Succede di tutto e di più: e viste le premesse, il finale agrodolce riscatta tutti i personaggi positivi, finanche Blevins, di cui intuiamo la storia personale solo nelle ultimissime pagine del libro. Spiace annotare ancora una volta la caduta nel registro retorico, ma ribadisco: è una caratteristica necessaria negli Americani: il monologo del giudice che attribuisce la proprietà del baio a John Grady solo perché commosso dalla sua storia, sembra una di quelle scene strappalacrime tipiche di quei film che passano su Canale5 nei pomeriggi estivi.
Infine, Cavalli selvaggi non è solo un romanzo di formazione, ma è anche un inno alla purezza della Natura incontaminata, che nella ristrettezza del meccanismo letterario è rappresentata meravigliosamente dai cavalli. Quando John Grady accarezza Redbo, vien voglia di andare al maneggio per accarezzare un cavallo qualsiasi. È vero che il cavallo è il mio animale preferito, ma le descrizioni delle sue espressioni e dei suoi gesti tratteggiano con un’immediatezza spiazzante lo spirito stesso del genere equino, e quindi della Natura in quanto tale, perché, come dice il gerente dell’hacienda, i cavalli hanno una stessa anima che si trasmetterà nel corpo dei cavalli per sempre uguale.
Negli occhi del cavallo possiamo intravedere il destino del Mondo.
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