{rokbox title=| :: |}images/janpalach.jpg{/rokbox}19 Gennaio. Nel 1969 Jan Palach, giovane studente praghese, moriva a 21 anni dopo essersi dato fuoco in piazza Venceslao. Aveva 21 anni e protestava contro la repressione della ‘primavera praghese’ ad opera dei sovietici. In questo gesto estremo, forse caricato di un peso ben superiore alla sua reale portata, permane un simbolo della lotta per la libertà, contro la repressione dei regimi comunisti.
Ho letto con piacere gli approfondimenti di questi giorni su questo sito, in occasione del 90esimo ‘compleanno’ del PCI; l’articolo di Barbini di ieri, come pure le parole di Persici nell’intervista che gli ha fatto Michele. Proprio con Michele, in questi giorni, ho avuto modo di dibattere sul PCI, la sua storia, il senso di milioni di vite ‘dedicate’ a questo ideale, con tutti gli annessi e connessi. Ho convenuto con lui che, al giorno d’oggi, tutto questo entusiasmo e impegno sarebbe fantascienza.
Non ho dubbi nell’affermare che, perlomeno per chi operava a livello locale, dal piccolo militante al dirigente di medio cabotaggio, l’impegno politico nascesse da sentimenti puliti, onesti. “Eravamo poveri, senza speranze, e il PCI una speranza ce la dava, era l’unico che ci difendeva“. Bellissime parole di Persici. Ho capito e apprezzato il suo punto di vista, come pure ho cercato di immaginarmi le fumose riunioni e le nottate passate a discutere che ricordava Barbini. Roba che adesso nessun giovane si sognerebbe di fare, ma che all’epoca si faceva, perchè c’era una grande voglia di cambiare le cose.
Questa grande aspirazione, questa volontà ferrea e sincera, frutto certo di una ‘buona fede’, era però applicabile anche a tutti i dirigenti nazionali del partito che per tanti anni avallarono comunque la partnership, più o meno stretta, coi regimi dell’Est Europa? Credo di no. Molti di loro sapevano, da sempre, e probabilmente credevano giusto nascondere la realtà di un fallimento giusiticando e tollerando in una logica di guerra (anche se fredda) le tante ingiustizie, repressioni, storture.
Questo credo sia stato il limite più grande del PCI dopo la fine la seconda guerra mondiale, una volta cancellato il clima di guerra degli anni precedenti in cui, purtroppo, ogni orrore diventava quasi la normalità e la violenza era purtroppo propria di tutti. Mentre contribuiva, insieme alle altre forze politiche della ‘prima repubblica’ a consolidare la democrazia in Italia (con tutti i limiti del caso…), chiudeva gli occhi di fronte agli errori dei ‘compagni’ d’oltrecortina, continuando a chiamarli compagni e assistendo senza il coraggio di ‘strappare’ ad una lenta e inesorabile agonia che avrebbe poi travolto anche il PCI stesso.
Facile dirlo adesso, difficile a farlo allora, questo è ovvio, ma è brutto ripensare che solo Berlinguer, nel corso degli anni ’70, abbia avuto il coraggio definitivo di dire come stavano le cose e che il comunismo, applicato nella realtà dei paesi del socialismo reale, aveva fallito.