“…..quello che gli ho dato, che mangiare era..”
G. Raboni
C’è una politica che ormai non si tiene più. E non da ora. E’ la politica urlata, aggressiva, offensiva e insultante, che ha preso ormai il sopravvento. Discutere pacatamente e con competenza è esercizio impraticabile. Per la semplice ragione che non”tira”.
In tv si va spesso per urlare, nel web e nei social network la dimensione virtuale allarga la platea dei partecipanti, ma non sempre con risultati apprezzabili. In questo quadro, già di suo non entusiasmante, si sta distinguendo il comico genovese, ormai in preda a un delirio di onnipotenza. Mi ha molto colpito l’esternazione sui padri puttanieri. E non solo per i toni. Questa del conflitto generazionale, con giudizi spesso affrettati e a senso unico rischia di essere un ulteriore divisione in questo paese, cui già non mancano laceranti conflitti. Forse una riflessione, pacata e approfondita, su meriti e responsabilità fra le diverse generazioni, potrebbe fare giustizia di giudizi sommari e aggettivi quali bamboccioni, choosy o puttanieri. È pensando a questo che mi sono ricordato di una poesia di Giovanni Raboni. La pubblico integralmente in calce a questo articolo, forse perché, arrivati all’apice del disgusto, il linguaggio poetico può costituire un ancora di salvezza. La tenera e umile autocritica di Raboni, ci dice che su questo tema non solo i toni ma pure le visioni possono essere diverse. Riconoscere i propri limiti, consapevoli di poter essere inadeguati può aiutare – più degli anatemi e dei giudizi offensivi – a riconoscere e condividere responsabilità e doveri. Si potrebbe dire che i concetti sono simili. Ma è il modo di esporli che fa sempre la differenza.
La Guerra
Ho gli anni di mio padre – ho le sue mani,
quasi: le dita specialmente, le unghie,
curve e un po’ spesse, lunate (ma le mie
senza il marrone della nicotina)
quando, gualcito e impeccabile, viaggiava
su mitragliati treni e corriere
portando a noi tranquilli villeggianti
fuori tiro e stagione
nella sua bella borsa leggera
le strane provviste di quegli anni, formaggio fuso, marmellata
senza zucchero, pane senza lievito,
immagini della città oscura, della città sbranata
così dolci, ricordo, al nostro cuore.
Guardavamo ai suoi anni con spavento.
Dal sotto in su, dal basso della mia
secondogenitura, per le sue coronarie
mormoravo ogni tanto una preghiera.
Adesso, dopo tanto
che lui è entrato nel niente e gli divento
giorno dopo giorno fratello, fra non molto
fratello più grande, più sapiente, vorrei tanto sapere
se anche i miei figli, qualche volta, pregano per me.
Ma subito, contraddicendomi, mi dico
che no, che ci mancherebbe altro, che nessuno
meno di me ha viaggiato fra me e loro,
che quello che gli ho dato, che mangiare
era? non c’era cibo nel mio andarmene
come un ladro e tornare a mani vuote…
Una povera guerra, piana e vile,
mi dico, la mia, così povera
d’ostinazione, d’obbedienza. E prego
che lascino perdere, che non per me
gli venga voglia di pregare.
GIOVANNI RABONI
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