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o Maracanaço (arriviamo secondi!)

la prossima volta che gioco una finale mi segno un goal contro…
O. Varela capitano della Nazionale di calcio dell’Uruguay nel 1950

Nel dubbio che un assenza troppo prolungata possa nuocere alla salute, il calcio giocato e trasmesso in tv sente l’obbligo di nutrirci costantemente e si inventa manifestazioni che più inutili non si può.

Lungi dal costituire un evento di spessore e grande caratura tecnica , la confederations cup in programma in Brasile dal 15 giugnoprossimo, ha l’unico merito di proiettarci, con un anno di anticipo, nell’appuntamento più atteso dai tifosi di calcio di tutto il mondo e in particolare da quelli della nazione ospitante: i mondiali del 2014 in Brasile

 

L’ex presidente Lula, fra altri indiscutibili meriti ascrivibili al periodo in cui ha guidato la grande nazione sudamericana, vanta il fatto di aver portato le due manifestazioni sportive più importanti: i mondiali di calcio e le olimpiadi. “Ora posso anche morire” è stata la frase che ha pronunciato dopo che il Brasile ottenne – successivamente ai mondiali – anche l’organizzazione dei giochi olimpici. Una grande opportunità evidentemente, per un paese che sta vivendo una crescita economica non priva di contraddizioni, ma capace di proiettarla fra le nazioni  più potenti del pianeta.
Stando all’evento sportivo – aldilà dei possibili e auspicabili benefici che ne potrà trarre il Brasile sul versante economico e di immagine- impossibile non ricordare l’unico precedente che la storia – ahimè triste – ricordi. E per ricordarlo potrebbero bastare i principali titoli della stampa brasiliana all’indomani della conclusione di quell’evento: “La nostra Hiroshima” “La più grande tragedia nella storia del Brasile”
E fu davvero una tragedia quella finale e non solo per l’esito sportivo. A seguito della inopinata e assolutamente imprevedibile sconfitta ad opera dell’Uruguay, almeno cento persone morirono, fra suicidi e infarti. Maracanaço, ovvero il disastro del Maracanà, così da allora viene ricordata quella giornata che vide quasi 180.000 spettatori assistere ad una finale leggendaria e non solo per il risultato.

In quell’occasione non andò in scena solo la grande delusione degli sconfitti. Ad essa si affiancò, sin da subito, il rimorso dei vincitori che vissero l’enorme distanza delle due contrapposte sensazioni: la gioia, lontana, della nazione uruguayana contro lo smisurato sconforto di un paese intero che si esprimeva in quel momento sotto i loro occhi. “Ad un certo punto, provai pena per quello che stava accadendo», furono le parole di Schiaffino uno dei goleador di quella partita.
Il capitano della nazionale Uruguaiana Obdulio Varela, per molti l’artefice di quella vittoria, si portò dentro il rimorso per tutta la vita. Vide i bambini piangere, capì cosa poteva significare la sconfitta .”Se dovessi giocare di nuovo quella partita, mi segnerei un gol contro. L’unica cosa che abbiamo ottenuto vincendo il titolo è stato di far felici i dirigenti della Federazione uruguaiana che si fecero consegnare le medaglie d’oro e a noi giocatori ne diedero altre d’argento. Questo è stato il riconoscimento”.

Fatto salvo De Coubertin si deve sempre giocare per vincere. È il sale dello sport è lo spirito della competizione. Ma mi domando se dobbiamo qualcosa al Brasile. E non solo per quella sconfitta. Per il Samba forse o la Bossa nova. Per Veloso o per Jobim. Per Pelè o per Falçao. Per la saudade o per le spiagge di Rio. Per Senna magari…

Il Brasile calcistico, dopo quella sconfitta attese due anni prima di tornare in campo, ma poi divenne la squadra straordinaria che tutti conosciamo, capace di vincere ben 5 titoli e forse di perderne quasi altrettanti. Squadra di grandissimi, immensi campioni. Incapace di fare calcoli e sempre in campo per vincere e divertire.

Farà così anche nel prossimo mondiale. Il loro mondiale. E non avrà bisogno di compiacenze o regali. E dovesse capitare a noi arrivare secondi, questa volta – forse – potrebbe dispiacere un po’ meno.

Luca Bianchi

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Luca Bianchi

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