“Ragazzi, c’è qualcosa che non va?” “Si George, la tua cravatta!“. Lo dissero i Beatles a George Martin la prima volta che lo incontrarono. Pensate quanto cinismo c’era in quei quattro: avevano appena saputo che dopo tanti “No” delle case discografiche quell’uomo che sembrava un impiegato del catasto aveva intenzione di perdere un po’ di tempo con loro producendogli un 45 giri. Quella battutaccia fu il loro modo di dirgli Grazie. Accadde ad Abbey Road, nell’anno di svolta 1962. Fu l’inizio di tutto, l’avvio di un rapporto di collaborazione che avrebbe rivoluzionato la storia della musica, e un po’ anche quella del mondo.
Martin, che dirigeva la Parlophone (una sottomarca della EMI), pur non capendo bene cosa avessero in testa quei 4 scalmanati, pur trovandoli pieni di difetti e imprecisioni varie, ne restò affascinato e decisi di provarci, gettandosi nel rock dopo anni di lavoro poco più che impiegatizio fra dischi jazz e registrazioni di commedie comiche e novelle per bambini
Il bello del rapporto fra Martin e i Beatles è che è un brillante esempio di incontro, condivisione, sopportazione fra mondi opposti. Lui e i 4 di Liverpool erano in antitesi su tutto: George quando li conobbe aveva 36 anni, ma ne dimostrava già 50 col capello impomatato anni ’40 e quella brutta cravatta; i Beatles invece di anni ne avevano 20 e volevano spaccare il mondo. Per farlo, però, avevano bisogno di qualcuno che indirizzasse la loro creatività su binari logici: lo trovarono proprio in George Martin, uomo di pazienza enorme oltre che di grande curiosità e apertura mentale, ma anche concretezza. Tutte le meraviglie che vennero fuori in quel 1962/1969 ebbero in lui una sorta di ‘finalizzatore‘, un bomber che prendeva la palla (e che palla!) e la appoggiava in rete, con la sua ineguagliabile capacità di ricomporre e contenere nella forma canzone la deboratante creatività, spesso al limite della follia, dei ragazzi.
Fu così che dalle continue “fisse” di John o Paul sui nastri al contrario e sui loop e da richieste tipo “vogliamo che la voce sembri un coro di Monaci tibetani” o “Voglio una canzone che suoni come un’arancia” vennero fuori capolavori di genio come Tomorrow never knows, oppure si riuscì a realizzare un pezzo di musica travolgente con un’orchestra di 60 elementi a cui fu ordinato di “suonare a caso” (A day in the life) o ancora si fece di un palese errore tecnico come il salto di mezzo tono a metà di Strawberry fields forever l’ingrediente segreto per rendere eterno quel brano. Fu lui a mettere per scritto quanto Paul McCartney, che non conosceva il pentagramma, gli suonava “a voce” per l’arrangiamento di pezzi indimenticabili come Eleanor Rigby o Yesterday. Ma gli esempi sarebbero infiniti, ultimi fra tutti l’invenzione del medley musicale, della ghost track e il primo caso di utilizzo sensato del sintetizzatore Moog, tutta roba che si trova nell’ultimo album registrato dal quartetto, Abbey Road
La verità è che Martin era un grande tecnico, ma anche un grande musicista. E non lo è stato solo fino al 1969, ma per tutta la vita.
La perizia alla consolle si notava ancora pochi anni fa, quando fu in grado di creare una gemma come “Love”, disco in cui riprendeva i pezzi dei Beatles e li “remixava” in un collage sonoro stupefacente, ottenuto con colpi di classe incredibili, tipo appoggiare la voce di Within you without you sulla batteria di Tomorrow never knows o incollando Come together a Dear prudence. Ma proprio in quel disco si trovava l’ennesima conferma delle sue qualità di compositore: basta ascoltare quanto fatto per While my guitar gently weeps sulla quale, partendo da un nastro con sola voce e chitarra registrato a scopo dimostrativo, inserì un magnifico arrangiamento orchestrale arrivando a risultati di classe ed equilibrio al limite dell’inarrivabile
Per chi volesse vederlo in azione ecco qui il “making of” di un pezzo tanto stupendo quanto sottovalutato della carriera solista di Paul McCartney, Beatiful Night. Martin, ovviamente, c’è. E si sente
Buon ascolto a tutti