E’ difficile dimenticare gli insegnanti incontrati nei percorsi formativi, su tanti, i ricordi risultano sbiaditi. Gli unici indimenticabili sono i maestri elementari. Anche se mi era capitato di cambiarne uno all’anno; e averne avuti pure tre in un anno.
Fondamentale la spinta iniziale del maestro o maestra, per noi torzoloni di campagna che parlavamo in dialetto, e non avevamo visto libri, lapis, pennini e quaderni, prima d’indossare il grembiule e il fiocco sul colletto bianco. Per fortuna, ebbi la maestra Luigina Crivelli. Graziosa, giovane, affettuosa. Forse, anche lei alle prime armi. Quanto intenzionalmente non so, lei non mancava di evidenziare le qualità del mio compagno di banco, Leonardo, ripetente in prima classe. Bravo a scrivere, leggere, e mano felice in disegno. Proprio così, si bocciava anche in prima! Nel caso di Leonardo senza ragione, se non nella discriminazione verso figli di povera gente. Luigina era diversa. Nella pluriclasse (dalla prima alla terza), non lasciava indietro alcuno, anzi, valorizzava le capacità di tutti. Anche dei duri di comprendonio. Che c’erano. Non era un problema di somaraggine. I ritardi di apprendimento (a qualsiasi causa imputabile), a quell’età, andavano trattati con dolcezza e tenacia, come faceva Luigina. Tutti bravi a curare piccoli fenomeni, i maestri veri erano coloro che “cavavano il sangue dai rapi”, si diceva allora. Gli insegnamenti, Luigina, li trasformava in gioco. Mettiamo, ad esempio, per incitarci a scrivere i primi pensierini, soggetto verbo complemento, prometteva un regalino: giornalini delle banche orientati al risparmio, anche se non capivi il testo, erano illustrati, salvadanai metallici sponsorizzati dalla banca, dolcetti, giochini,… bastava poco. Quei premi valevano più di mille: bravo! A Natale, fece a tutti un bel regalo. Il mio fu una carrozza western colorata trainata da cavalli, in plastica! Chi avrebbe sperato in quel giocattolo?! A casa, i grandi ci aggeggiavano rocchetti di legno con elastici, a mo’ di ruote dentate semoventi, scrandole, che imitavano il gracidio delle rane, fionde, carretti di legno, pensa palle – tronchetti di sambuco svuotati del midollo, con un legnetto spinto all’interno, sputavano pallette di stoppa -…ma, giochini di plastica, pochi genitori se li permettevano. E se qualche discolo importunava, come il mitico Gnerucci, schizzando l’inchiostro del calamaio sul colletto bianco d’una bambina, si chiamava la mamma giustiziera. La quale, seduta stante, a suon di scapaccioni eseguiva una sonora punizione! Questa era la tranquilla vita scolastica nelle pluriclassi di Pergo. Con l’esordio felice, guidato da Luigina, che, dopo il primo anno, ci lasciò per un’altra scuola. Ci aveva preparato pure per le “recite” a Cortona, al teatrino di via Guelfa. Piccolini, facevamo il verso ai sette nani, cantando una facile filastrocca, traversando il palco. Poca roba. Ma dagli imbranati, ch’eravamo, era il massimo ottenibile. Volle, pure, farci il test del quoziente d’intelligenza. A noi risultò un compito facile, mettendo croci e segni su un questionario. Da adulto seppi, dalla maestra stessa, di cosa si era trattato. All’epoca, era parso come un cruciverba.
Finchè la mia famiglia, durante la crisi mezzadrile del dopoguerra, s’inurbò in Camucia. Nel giorno di un’eclisse solare, caricate poche cose domestiche sul camion – residuato bellico – del rosso malpelo Marino Vinerbi, traslocammo dalla casa colonica di Caldarino alla Bicheca. Centro storico della Camucia proletaria. A seguire il babbo, da mezzadro a bracciante agricolo, e la mamma, domestica anche per altri, e sferruzzatrice di golfi e cappelli di lana.
A metà anno, proseguire la terza elementare fu traumatico. Passare da una paciosa pluriclasse a una monoclasse, sezione maschile, con un maestro che dire severo è poco. In classe c’era uno dei suoi figli, insieme ad Alfredino Bianchi, figlio del farmacista, e Gaetano De Judicibus, figlio del medico condotto. L’ambizione del maestro era forgiare una classe d’eccellenza. Passai, in un sol giorno, dai problemini, dettatini, temini di Pergo, alle equivalenze, all’analisi logica e grammaticale, al calcolo delle superfici piane e dei solidi e, non ultimo, a imparare a memoria brani di canti danteschi. Dalle poesiole che, fino allora, avevo mandato a memoria. I metodi dolci di Luigina erano ricordi remoti. Il maestro ci teneva col pugno di ferro. Se sapevi, bene. Altrimenti volavano scapaccioni, nocchini, in ginocchio alla lavagna, banco degli asini, tirate d’orecchie… Punizioni corporali, che, interiormente, bruciavano ancor di più. Ma, poi, che tirate! A uno scolaro, persino, cedette la parte molle dell’attaccatura d’un orecchio.
Me la cavai alla meno peggio, passando in quarta classe. Forse, favorito dal partecipare al doposcuola del maestro Piva. Aiutava a fare i compiti e poi, fuori, a passeggio o a giocare. Il volto umano di quel semestre scolastico. Dopo il pranzo, ottimo, preparato da Pasquina – risotto al pomodoro, cacio olandese, carne o tonno in scatola -, guidata dal maestro Piva, si riuniva una pluriclasse raffazzonata e divertente. Figli di operai e artigiani (si diceva iscritti all’albo dei poveri), ripetenti o in corso normale non importava, formavamo una miscela indimenticabile. Amicizie perenni tra coetanei inquieti e discoli, tra cui ragazzi ripetenti vicini alla crescita della barba, tutti curiosi di scoprire esperienze, specie di birbanterie. Da fare, subire, o schivare. Però, a ottobre, chiesi e ottenni asilo in seminario. Abbandonai l’insegnante terribile. Volando, in un solo anno, dalla quarta alla quinta classe, tant’ero stato preparato in quel semestre di fuoco. Trovando don Domenico Ricci, maestro affabile e burlone. Era destino, direbbero i vecchi saggi, imbattersi alle elementari in maestri simpatici o antipatici. I maestri, oggi, si possono scegliere, potendo spostarsi con mezzi pubblici e privati da una scuola all’altra. Un tempo non era così. Oltretutto, il maestro elementare unico di allora è stato superato. Ma questo è un altro tema.
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