I mezzadri aretini, specie in Valdichiana, erano stati protagonisti nelle rivendicazioni del “biennio rosso”, sfociate nei patti agrari più favorevoli ai contadini (F. Fabilli, 2013). L’evento scatenò la reazione degli agrari e di squadre fasciste spalleggiate da corpi militari e civili dello Stato degenerata in violenze nei Comuni rossi che avevano sostenuto i coloni (G. Sacchetti, 2000).
Nel secondo dopoguerra, la forza mezzadrile aretina si presenta ancor più convinta, organizzata, capillare e combattiva sul fronte politico-sindacale, rappresentando la prevalente forza lavoro presente sul territorio, tra il 60-70% del totale. Dalle lotte mezzadrili emersero dirigenti che, con pochi input da centrali provinciali e nazionali, furono in grado in ogni Comune di prendere le redini d’un movimento di massa mai visto prima. Con lo spartiacque nell’esclusione delle sinistre dal governo e l’attentato a Togliatti. Da cui discese l’inasprimento delle rivendicazioni mezzadrili e, da parte governativa, il contrasto sistematico alle proteste mezzadrili e bracciantili trattate come minacce all’ordine pubblico. Prima del ‘48, infatti, erano stati presi provvedimenti in favore del riassetto delle campagne in accordo tra i principali partiti di massa al potere caduto il fascismo: il “Lodo De Gasperi” e la legge sulla “tregua mezzadrile”. Provvedimenti non radicali, però forieri di margini ulteriori agli interessi mezzadrili nella divisione dei prodotti: portandola al 60%, contro il 40% di spettanza padronale. A cui si aggiunsero norme a favore della proprietà contadina, in un primo momento escludenti dai benefici mezzadri e braccianti, rimandando sine die una riforma agraria organica con l’obiettivo della “terra ai contadini”. Che, però, per gradi si realizzò, consentendo prima ai coltivatori diretti e poi anche a mezzadri e braccianti l’acquisto e l’incremento di terre poderali, attraverso provvedimenti emanati nel tempo. Perdurando divisioni ideologiche tra maggioranza e opposizione parlamentare, i governi centristi a guida democristiana favorirono incentivi alla proprietà contadina – tramite contributi e crediti agevolati a lunga scadenza e a bassi interessi – a prezzi di mercato (non scontentando così i latifondisti), mentre sul fronte mezzadrile, a metà anni Sessanta, ne fu vietato del rinnovo di patti, consentendoli solo se più vantaggiosi al mezzadro, sopravvivendo così la mezzadria fin alla fine del Novecento. oltretutto i mezzadri, negli anni Cinquanta e Sessanta, esodarono in massa dalle campagne verso centri urbani e industriali, mentre, specie i più anziani, si convertirono in coltivatori diretti. Insomma, l’agricoltura aretina nel secondo dopoguerra ha assistito a modifiche profonde e repentine (di fronte alla secolare staticità delle campagne) negli assetti proprietari, nelle gestioni aziendali, nella stratificazione sociale, rimanendo Arezzo una provincia dai connotati agricoli.
Tensioni nelle campagne contraddistinsero il ventennio post bellico: mobilitazioni massicce mezzadrili e bracciantili a sostegno di cause particolari (a favore di questo o quel mezzadro); di vertenze collettive (patti agrari, lavoro ai braccianti); di manifestazioni politiche e sindacali, partecipate, che muovevano da rivendicazioni sociali (come sanità e previdenza ai contadini) a iniziative politiche a favore della pace e del disarmo nucleare; a vertenze favorevoli allo sviluppo socio-economico: lavoro, acque irrigue, scuole, viabilità, elettrificazione, acquedotti rurali, condotte mediche e veterinarie,…premesse necessarie al permanere contadino nelle campagne. Considerando lo svantaggio del reddito agricolo confrontato a redditi in altri settori. Intenti comuni nelle lotte politiche e sindacali crearono una forte solidarietà tra mezzadri e braccianti, perdurante nel tempo, che si tramuterà in fedeltà ai sindacati e partiti di sinistra a cui era riconosciuto il merito del riscatto. Quel che, dall’esterno, era ritenuto il conservatorismo politico delle regioni rosse del Centro Nord, nacque in quel contesto di battaglie mezzadrili e bracciantili, nei vent’anni post bellici e in aree caratterizzate dai patti mezzadrili. Dopo repressioni secolari padronali di libertà e capacità individuali e familiari, la nuova realtà del Paese consentiva combattere per i diritti e trattamenti civili; sopperendo alla scarsa scolarità con capacità organizzative e di iniziativa affinate in generazioni, affrontando, senza protezioni, lavori e insidie continue: inclemenze stagionali, carestie, malattie delle persone e degli animali,…
Molti contenziosi padrone/contadino, non tutti risolti con l’intervento dei mediatori – in testa i sindacati -, finirono in Pretura. Innanzi tutto le “divisioni” ai raccolti erano occasioni di conflitto sulle spettanze. Danni enormi, a scapito mezzadrile, derivavano dai saldi annuali disattesi, per anni e finanche per decenni, in cui i soccombenti (i mezzadri) per lo più non era più in grado di ricordare poste attive e passive degli anni trascorsi, innescandosi vertenze infinite. Ai mezzadri, i sindacati raccomandavano di non uscire dal podere finché i conti non fossero saldati. Specie dopo controversie sulle scorte vive: il bestiame di grossa taglia. Quando l’astuzia padronale ne considerava il valore attribuitogli all’iscrizione del bestiame sul libretto colonico, non già il valore corrente di mercato, in danno del contadino, vista l’inflazione, in specie, tra prima e dopo la guerra. Senza trascurare situazioni nelle quali il superamento dei limiti di reciproca sopportazione, tra concedente e mezzadro, si tramutava in risse verbali, denunce per violenze subite, minacce, o danneggiamenti a beni. Cattiverie a conclusione di anni di reciproca mal sopportazione. Contesti in cui era facile scattassero escomi padronale con pretesti speciosi. Nonostante la disparità di potere tra concedente e contadino, quest’ultimo, forte del sostegno sindacale e politico, non era più docile come in passato. Anzi, dimostrava la sua partigianeria attraverso segni “provocatori” ostentando bandiere rosse o della pace. Che le forze dell’ordine, costrette a rimuoverle, consideravano oltraggiose dell’ordine pubblico, comminando denunce e sanzioni pecuniarie, appellandosi al Testo Unico di Pubblica Sicurezza del 1931. Usato in molte situazioni dalla forza pubblica. Nel sanzionare affissioni di manifesti e giornali murali senza permesso in grado di “turbare l’opinione pubblica”, contenenti “notizie false e tendenziose”; in caso di “assembramenti non autorizzati”, e negli assembramenti venisse usato un “apparecchio amplificatore senza autorizzazione”; o in manifestazioni esondanti il programma autorizzato… Tale sistematica persecuzione di manifestazioni “turbative dell’ordine pubblico”, non era dovuta solo alla solerzia del maresciallo bensì furono decisivi ordini prefettizi e del Ministro degli interni di stroncare manifestazioni di dissenso antigovernativo utilizzando a man bassa norme di P.S. fasciste. Anche i giudici, in più circostanze si prestarono, sanzionando con multe e condanne penali, nell’avallo dell’operato poliziesco, tramutando in reato la libertà di pensiero e di manifestazione tutelate costituzionalmente (F. Fabilli, 1990, pp. 151-188).
A fianco delle vertenze mezzadrili, crescevano nell’aretino agitazioni di massa dei braccianti disoccupati e sottoccupati, che lo sviluppo industriale e del terziario non era in grado di assorbire. Nei patti agrari erano previste percentuali sull’utile prodotto da destinare a migliorie, come lo scavo di fosse da destinare a piante fruttifere. Ma in quantità insufficienti a risolvere la disoccupazione bracciantile. Il Ministro del lavoro, l’aretino Amintore Fanfani, consapevole della gravità del problema, intervenne in più direzioni: incentivando l’occupazione in lavori pubblici nei cosiddetti “cantieri Fanfani” (opere stradali, rimboschimenti, …) e obbligando grandi proprietà a destinare fondi a migliorie (piantagioni da frutto, reti scolanti, viabilità interpoderale,…), al fine di sviluppare occupazione. Non è il caso di soffermarsi sul ruolo di Amintore Fanfani a favore di braccianti e contadini e, più in generale, su situazioni riguardanti la provincia di Arezzo. Il personaggio merita infatti interesse per l’incidenza che ebbe anche in loco su questioni economiche in generale e sul mondo rurale. Pur non condividendo le ricette riformistiche della sinistra, esperto economista e politico sensibile ai drammi dell’arretratezza e della miseria delle campagne fu promotore di incisivi interventi a favore delle popolazioni rurali (S. La Francesca, 2007) .
Il territorio aretino: clima, geologia e popolazione
Il baricentro tra provincie e regioni mezzadrili. Arezzo è la provincia toscana cerniera tra le quattro regioni mezzadrili: l’Emilia Romagna con Forlì, le Marche con Pesaro e Urbino, l’Umbria con Perugia, e la Toscana con Siena e Firenze (a cui corrispose, per quasi tutto il periodo in questione, pure la provincia di Prato). Area di contiguità fisiche e amministrative, similitudini socio-economiche di lungo periodo nell’organizzazione agricola e nei fenomeni caratterizzanti il trentennio 1945-’75, come la fine della mezzadria e l’esodo dalle zone rurali verso i centri urbani e le aree industriali. All’esodo massiccio dall’aretino saranno infatti interessate le regioni e le provincie limitrofe, e in parte il Lazio, mentre al fenomeno inverso, l’immigrazione, contribuirono regioni del sud e delle isole, a parziale rimpiazzo di famiglie emigrate.
Il clima. Nell’aretino è presente, in gran parte, un clima continentale (molto caldo d’estate e molto freddo d’inverno) con variazioni legate all’altimetria del territorio, a cui vanne aggiungente le bizzarrie di pioggia e neve concentrate per oltre il 50% in ottobre-novembre e nella variabilità di stagioni, da un anno all’altro, da piovose con 1200-1500 mm a siccitose con 300-500 mm. A ciò si aggiunga la scarsità di corpi idrici e la loro distanza dai terreni a coltura. Ciò ha determinato una “grande sete” agricola in vaste aree, dove i contadini mancavano di acqua potabile per sé e per gli animali oltre a quella per uso irriguo. L’approvvigionamento idrico sarà tra le prime vertenze territoriali. Partita con l’improbabile progetto sull’uso delle acque dei laghi di Chiusi e Montepulciano. Finché non giunse l’idea della diga a Montedoglio, sbarrando il Tevere. Sufficiente a soddisfare usi agricoli e idropatibili in larga parte della provincia, e persino rinsanguare il Trasimeno. Tuttavia i tempi di realizzazione sono risultati così lunghi da costringere le aziende agricole a provvedere altrimenti: scavando profondi pozzi e costruendo invasi artificiali per acque piovane e sorgive.
Sui 300.000 ettari di territorio aretino, oltre un terzo a bosco ed edificata, la parte rimanente non è ugualmente fertile, considerando oltre alla geologia l’altimetria, innestata sulla dorsale appenninica. Altro dato indicativo sulle qualità del territorio e sulle difficoltà nei collegamenti viari. Dal punto di vista altimetrico, infatti, la provincia aretina non ha campagna ma solo territorio montano (40%) e collinare (60%), mentre la Toscana ha il 25% di territorio montano, 66% collinare, 9% di pianura, e l’Italia è suddivisa in 35% montagna, 42% collina e 23% pianura.
Movimenti della popolazione. Nel 2006, la Provincia di Arezzo rifletteva sulla evoluzione di movimenti migratori, dagli anni Novanta in poi non più riferiti a componenti nazionali bensì a forte connotazione internazionale. “La trasformazione in senso multiculturale e plurilingue del territorio provinciale è messa in particolare evidenza dal numero di cittadinanze estere presenti, pari a 127 (nel mondo, secondo l’ISTAT, sono 194 cittadinanze estere). Lo Stato estero più rappresentato è la Romania con il 26,5% sul totale della popolazione immigrata. Segue l’Albania, con il 19,3% e, con numeri e percentuali nettamente più basse, il Marocco (6,7%), il Bangladesh (5,3%), l’India (4,0%), la Polonia e il Pakistan”. Il processo di mutazione demografica, profonda e pacifica, era avviato negli anni ’50, con l’esodo dalle montagne e dalle campagne per molteplici ragioni che vedremo strada facendo. “La popolazione della provincia di Arezzo, dopo la riduzione che ha caratterizzato gli anni ’60 e ’70, segna una netta ripresa negli ultimi trenta anni, registrando una continua e graduale crescita. In particolare in Valdarno e nell’area Aretina il saldo è sempre rimasto positivo, mentre nelle altre tre zone il trend decrescente si è esaurito durante gli anni ’80 e solo dal 2000 in poi ha invertito il trend, sopratutto in Valdichiana (Graf. 1.1 e 1.2). L’incremento è strettamente legato ad una crescente immigrazione che compensa più che abbondantemente il saldo naturale negativo (Graf. 1.3) anche nelle zone Casentino e Valtiberina che anche in anni recenti registravano saldi negativi. In Valdarno e nella zona Aretina in particolare, si registra nell’anno 2006 un incremento del 7 per mille abitanti (comunque in calo rispetto ai valori degli anni precedenti), mentre nella zona Valdichiana la crescita è stata appena superiore al 5 per 1000. Analizzando un arco temporale di oltre trenta anni (1972-2006), si evidenzia molto chiaramente che tali incrementi sono dovuti in modo consistente alla componente immigrata della popolazione, che ha contribuito anche alla ripresa della natalità nella nostra provincia (Graf. 1.4).Se confrontiamo inoltre anno per anno il numero dei nuovi iscritti alle anagrafi comunali e lo scomponiamo per la componente proveniente da altri comuni italiani e da Paesi esteri, notiamo una continua crescita di tale componente della popolazione (nel 1990 si registrarono 6.050 nuove iscrizioni, mentre dal 2002 in poi tale dato ha abbondantemente superato le 10.000 unità) e ultimamente un incremento di coloro (anche di cittadinanza straniera) che provengono da altri comuni italiani (Graf. 1.5)”.
Graf. 1.1 – Popolazione Residente nella provincia di Arezzo ai censimenti
Graf. 1.2 – Popolazione Residente per zona ai censimenti
Graf. 1.3 – Saldi – Popolazione al 31/12/2006
Graf. 1.4 – Tassi demografici nel periodo 1972-2006 – Provincia Arezzo
Graf. 1.5 – Nuovi iscritti alle anagrafi comunali suddivisi tra italiani e stranieri
(Popolazione al 31/12/2006)
Le dinamiche demografiche nell’immediato dopoguerra (1951-1970)
Attingiamo allo studio SOMEA, commissionato a fine anni Sessanta dagli enti locali aretini, che elabora dati Istat, dal censimento 1951 al 31 dicembre ’68. Nel periodo si verificano sensibili dinamiche demografiche, a cui corrispondono importanti movimenti intersettoriali di forze lavoro, dall’agricoltura ad altri settori, migrando pure verso altre provincie e regioni. La popolazione aretina nel 1951 di 329.665 residenti, al 31.12.1968 è di 306.387, con saldo negativo nel periodo di -7,07%. Mentre nel capoluogo aumenta la popolazione del 27,6%, da 66.511 abitanti a 84.839, per il fenomeno endogeno degli esodi da zone agrarie montane a quelle collinari. I residenti montani dal 23,8% del 1951 si riducono al 18,1% del 31.12.1968, quelli in collina passano dal 76,2% del 1951 all’81,9% del 1968. Tra le aree più popolate risultano essere “le colline di Arezzo e del Valdarno, che rappresentano, rispettivamente, il 38,7% e il 26,4% dei residenti al 31.12.1968, con un incremento sensibile rispetto ai censimenti del 1951 e 1961. Tutte le altre aree presentano una diminuzione percentuale nei residenti nel periodo 1951-1968”. L’aumento notevole dei residenti nelle Colline di Arezzo e del Valdarno, è dovuto ad incrementi nelle città di Arezzo, Montevarchi e S. Giovanni Valdarno. Lo stesso accentramento urbano avviene in Casentino, verso Bibbiena, e in Valtiberina verso S. Sepolcro. Cortona, per particolari caratteristiche orografiche – collocata in collina tra i 450 e i 600 metri s.l.m. -, diminuisce gli abitanti nel capoluogo e nell’intero territorio, offrendo scarse alternative ai lavoratori agricoli in altri settori. Solo negli anni ’70 si insedierà un cospicuo stabilimento industriale (Lebole), mentre il tessuto secondario è caratterizzato da insediamenti artigianali con pochi addetti, per frazioni di prodotti industriali (fasonisti), e da lavori a domicilio, principalmente femminile. Pur essendo il secondo comune della provincia, dal 1951 al 31.12.1968, perde 8.346 abitanti, oltre il 26% della popolazione. E l’esodo non ancora era finito, parzialmente reintegrato da immigrati meridionali. Prevalgono nella provincia insediamenti frazionati, con oltre il 31,5% di abitanti in case sparse, contro la media regionale del 19,3%.
Composizione della popolazione per età e sesso.
Diversamente dalla consistenza media Toscana e nazionale, nel 1951, nell’aretino i maschi prevalgono sulle femmine, risultando il rapporto M/F pari al 50,32% che si inverte nel 1961, M/F 48,81%. Il fenomeno è accentuato nella classe d’età tra i 14 e i 65 anni. In questo periodo si evidenzia il progressivo invecchiamento della popolazione, infatti la popolazione infantile e giovanile (-14 anni) è diminuita nel periodo infracensuario passando dal 22,48% al 19,47% del totale della popolazione. Nel contempo aumenta la popolazione oltre i 65 anni, in provincia e nel capoluogo, passando, rispettivamente, dal 8,6% all’11,1% e dall’8,15% al 10,03%. In linea con i dati nazionali e regionali. Diminuiscono gli aretini tra i 14 e 45 anni del 3,29% , passando dal 48,38% dell’anno 1951 al 45,09% del 1961. Calo a cui concorrono gli aretini compresi tra 14 e 21 anni con -1,75% e quelli tra 21 e 45 anni con -1,54%. Per maschi e femmine, l’incidenza percentuale delle classi in età infantile e giovanile – in provincia e nel capoluogo – è maggiore di quella regionale e inferiore rispetto all’Italia. Stesso andamento manifesta la classe d’età dai 14 a 65 anni, confermando le modifiche strutturali verificatesi dal 1951 al 1968. Rispetto a quella italiana, l’indice di invecchiamento della popolazione aretina conferma la più accentuata senilità.
Popolazione residente per titolo di studio.
Laurea |
Media superiore |
Media inferiore |
Elementare |
Alfabeti privi titolo |
Totale |
Analfabeti |
||||||||
Ar1951 |
0,55 |
2,43 |
3,91 |
58,33 |
19,20 |
84,42 |
15,58 |
|||||||
Ar 1961 |
0,78 |
3,33 |
7,03 |
63,42 |
15,20 |
89,64 |
10,35 |
|||||||
Toscana 1951 |
0,92 |
3,44 |
5,49 |
62,05 |
17,40 |
89,30 |
10,70 |
|||||||
Toscana 1961 |
1,20 |
3,89 |
8,69 |
64,90 |
14,13 |
92,81 |
7,18 |
|||||||
Italia 1951 |
1,00 |
3,26 |
5,95 |
58,97 |
17,92 |
87,10 |
12,90 |
|||||||
Italia 1961 |
1,30 |
4,24 |
9,58 |
60,75 |
15,72 |
91,59 |
8,41 |
La dinamica intercensuaria consente di rilevare: A) Analfabeti sopra i sei anni in superano – nei due i Censimenti – la media regionale e nazionale. La percentuale di analfabeti è quasi doppia tra le femmine. B) La più bassa percentuale di laureati, rispetto alla regione e alla nazione. C) La provincia di Arezzo migliora nei gradi inferiori di istruzione, avvicinandosi alle medie regionali. L’istruzione elementare aretina e toscana sono superiori alla media nazionale. D) Gli alfabetizzati senza titolo, al 1961, nell’aretino sono inferiori alla media nazionale e superiori a quella regionale.
Movimento naturale e migratorio.
In Toscana dal 1951 al 1965 la popolazione è aumentata di 28.854 unità, con particolarmente tra il 1961-‘65 (+86,4 mila unità). Incremento dovuto a cause diverse. Nel periodo 1951-‘61, per il 70%, a cause naturali, per il 30% all’immigrazione. Dopo, la situazione muta. Il 59% è imputabile a cause naturali, il 41% all’immigrazione. Andamento costante fino al 1968. In presenza di una caduta della natalità in Toscana. Dal 1951 al 1961 l’aretino diminuisce i residenti. Nel periodo 1961- ‘65 il fenomeno è meno accentuato. In assoluto la popolazione raggiunge il picco negativo maggiore nel ‘71, e torna a superare i valori del ‘51, dopo un cinquantennio (anni 2000). In provincia i tassi di natalità sono leggermente crescenti nel periodo considerato, mantenendosi a livello regionale, che a cominciare dal 1966 presenta una flessione. Dal ‘64 i residenti della provincia cambiano tendenza, tornando a crescere dopo tredici anni di costante flessione. Coi più alti incrementi nei centri di vallata ad eccezione di Bibbiena che presenta incrementi lievi. Statisticamente si rilevano flussi migratori o immigratori definitivi, ma, nel periodo in questione, per alcuni comuni della provincia di Arezzo, i fenomeni stagionali sono rilevanti. Nel periodo 1961- ‘64 il 95,2% dei flussi è interno all’Italia, e il 4,81% verso l’estero. I trasferimenti interni alla provincia rappresentano, nel periodo considerato, il 36% del movimento interno dei flussi. Correnti migratorie verso Firenze, le regioni del triangolo industriale e il Lazio. Le immigrazioni provengono dalle regioni meridionali e insulari.
Alcuni rilievi sul movimento anagrafico dal 1950 al ‘68. A) Il quoziente di natalità dopo l’iniziale tendenza all’aumento, dal 1966 tende a diminuire sensibilmente, restando sotto la media nazionale. B) L’indice di mortalità è stabile. C) I quozienti migratori dai valori elevati (1956-1963), con tendenza alla diminuzione marcata per saldo migratorio (1965-1968), si presenta negativo per tutto il periodo. Al termine del quale se ne prospetta la stabilizzazione, prevedendo nei decenni futuri l’incremento.
Il quadro sinottico sulla popolazione attiva ai censimenti del 1951 e del 1961 messi a confronto evidenziano la drastica evoluzione da provincia agricola a provincia industriale e dei servizi.
1951 Val. assoluti |
% |
1961 Val. assoluti |
% |
Variazioni % 1961/1951 |
|
Popolazione attiva |
152.019 |
100,0 |
130.071 |
100,0 |
– 14,4 |
Agricoltura |
92.940 |
60,9 |
51.030 |
39,3 |
– 45,1 |
Industria |
33.911 |
22,4 |
48.204 |
37,0 |
+ 42,2 |
Altre attività |
25.168 |
16,7 |
30.837 |
23,7 |
+ 22,5 |
In cerca di prima occup. |
6.520 |
— |
3.109 |
— |
– 52,3 |
Popolazione non attiva |
119.524 |
— |
135.049 |
— |
+ 13,0 |
Totale popolazione > 10 anni |
278.063 |
— |
268.229 |
— |
– 3,5 |
Tassi di attività |
54,7 |
48,59 |
Popolazione attiva in condizione professionale per sesso e settori di attività ai censimenti 1951 e 1961
Anno |
Settori |
Maschi |
Femmine |
M.F. |
|||
Val. ass. |
% |
Val. ass. |
% |
Val. ass. |
% |
||
1951 |
Agricoltura |
69.265 |
61,3 |
23.675 |
62,3 |
92.940 |
60,9 |
1951 |
Industria |
27.186 |
23,6 |
6.725 |
17,6 |
33.911 |
22,4 |
1951 |
Altre attività |
17.461 |
15,5 |
7.707 |
20,1 |
25.168 |
16,7 |
1951 |
Totale |
113.912 |
100,0 |
38.107 |
100,0 |
152.019 |
100,0 |
1961 |
Agricoltura |
42.012 |
47,2 |
9.018 |
21,8 |
51.030 |
39,3 |
1961 |
Industria |
36.163 |
40,7 |
12.041 |
29,1 |
48.204 |
37,0 |
1961 |
Altre attività |
10.736 |
12,1 |
20.101 |
49,1 |
30.837 |
23,7 |
1961 |
Totale |
88.911 |
100,0 |
41.160 |
100,0 |
130.071 |
100,0 |
La struttura economica della popolazione.
Popolazione attiva 1951-1961 per settori di attività: provincia di Arezzo
Valori |
assoluti |
∆%1951- |
1961 |
% di |
composizione |
||
Condizione professionale |
1951 |
1961 |
Arezzo |
Italia |
Arezzo 1951 |
Arezzo 1961 |
Italia 1961 |
Agricoltura |
92.940 |
51.030 |
– 44,9 |
– 31,5 |
61,1 |
39,2 |
29,0 |
Industria |
33.911 |
48.204 |
+ 42,1 |
+ 25,4 |
22,3 |
37,1 |
40,4 |
Altre attività |
25.168 |
30.837 |
+ 22,5 |
+ 18,0 |
16,6 |
23,7 |
30,6 |
Totale condizione prof.le |
152.019 |
130.071 |
– 14,5 |
– 0,3 |
100,0 |
100,0 |
100,0 |
in cerca 1° occupazione |
6.529 |
3.109 |
– 52,3 |
– 47,2 |
4,1 (1) |
2,3 (1) |
2,9 |
Popolazione attiva |
158.039 |
133.071 |
– 15,8 |
– 2,8 |
56,8 |
49,6 |
39,7 |
Popolazione non attiva |
119.524 |
135.347 |
+ 13,4 |
+ 13,8 |
43,2 |
50,4 |
60,3 |
Popolazione residente >10 anni |
278.063 |
268.140 |
– 3,6 |
+ 6,5 |
100,0 |
100,0 |
100,0 |
Fonte: elaborazione SOMEA dati Istat
Il sistema è caratterizzato da uno svuotamento massiccio del settore primario, fondato sull’esistenza di forti divari di produttività intercorrenti tra attività agricole ed extra agricole. A tale deflusso dal primario ha fatto seguito un forte sviluppo dei settori extra agricoli di entità, tuttavia, inferiore al decremento evidenziato. Ne è derivata, nel periodo 1951- ‘61, una caduta della popolazione attiva in condizione professionale da 152 a 130 mila unità, e, per il periodo 1960- ‘67, una contrazione della occupazione da 134,0 a 119,4 mila unità. Dovuta alla emigrazione in altre Provincie e alla diminuzione delle unità attive per motivi di carattere generale. Riferendoci alla ripartizione percentuale delle attività e della occupazione per grandi settori, sono percepibili trasformazioni strutturali di grande portata. E’ avvenuto il passaggio da una economia prevalentemente agricola (in termini occupazionali) ad un nuovo assetto del sistema, in cui le attività extra agricole sono preminenti.
La stessa incidenza del PL del primario si ridimensiona, passando dal 43,5 del 1951 al 26,0% del 1961. Risulta così evidente il deterioramento delle posizioni di questo settore, nel passaggio dal 1951 al ‘67, e la crescente accentuazione del peso dei settori extra agricoli, passati dal 56,5% (1951) all’85,4% (1967) del PL provinciale.
Raffronti di produttività tra Arezzo e l’Italia: 1963-1967 (dati assoluti in 000 lire 1963)
Settore |
Primario (1) |
attività |
Extra agricole(2) |
(3)=(1)/(2) x100 |
Complesso attività |
delle |
||
1963 |
1967 |
1963 |
1967 |
1963 |
1967 |
1963 |
1967 |
|
Arezzo |
504 |
642 |
1.428 |
1.704 |
35,3% |
37,6% |
1.091 |
1.371 |
Italia |
702 |
923 |
1.541 |
1.846 |
45,5% |
50,0% |
1.347 |
1.634 |
N.° indici (Italia=100) |
72 |
70 |
93 |
92 |
— |
— |
81 |
84 |
Fonte: elaborazione SOMEA su dati Istat e di Moneta e Credito
Le cifre rilevano, per l’insieme delle attività, l’esistenza di un divario produttivo del sistema economico aretino rispetto ai dati nazionali, valutabile al ‘67 in circa 16 punti. Valutando i singoli settori, il sistema aretino dimostra dati relativamente favorevoli nei settori extra agricoli, e alquanto sfavorevoli nel primario. Con forti squilibri, in termini di produttività, tra primario e attività non agricole. Tale divario, – nel ‘67, nel rapporto tra produttività agricola ed extra agricola – risulta pari a 0,37, mentre a livello nazionale il rapporto ha valori prossimi allo 0,50. La circostanza ha un enorme rilievo, considerando che la stabilità della occupazione agricola risulta direttamente influenzata dall’altezza del rapporto tra le due produttività. Perciò, il fondo occupazionale operante in agricoltura risulta potenzialmente molto instabile.